Principi fondamentali (artt. 1 - 12)

 

La Costituzione Repubblicana (1948) esordisce con un gruppo di 12 articoli in cui sono poste le fondamenta dell’ordinamento della Repubblica. Tali principi costituiscono gli indefettibili criteri guida cui i poteri dello Stato, in primis quello legislativo, devono conformarsi, ed indicano all’interpreta la chiave di lettura delle leggi in conformità al dettato Costituzionale. Come affermato dalla Corte costituzionale con sentenza 1146 del 1988, la Costituzione italiana riconosce e sancisce alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di rango costituzionali. Tali sono tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente indica come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale, ad esempio, la forma repubblicana (art. 139), quanto quelli che, pur non essendo espressamente menzionati, costituiscono l’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Repubblica. Norberto Bobbio sintetizza la “nux” dei primi articoli affermando che i diritti dell’uomo, democrazia e pace sono i tre capisaldi inseparabili della Repubblica in quanto senza il riconoscimento dei diritti dell’uomo non c’è democrazia e senza democrazia mancano le condizioni minime per assicurare la pace.

I più importanti principi enunciati in tali articoli sinteticamente sono:

- la forma di governo repubblicana (artt. 1; disp. finali XII, XIII) sancita dal referendum popolare del 2 giugno 1946 e che permea tutto l’articolato della Costituzione;


- il principio democratico (artt. 1, 48, 49, 55, 56, 58): la Repubblica si fonda sul consenso dei cittadini, esclusivi e legittimi titolari della sovranità, che esercitano talvolta partecipando direttamente alla politica nazionale (democrazia diretta) ma soprattutto con la scelta dei propri rappresentanti (democrazia indiretta);


- il principio di unità e identità nazionale (artt. 3, 5, 6, 52, 54, 87) riconosce le diversità culturali degli individui (lingua, tradizioni, costume, religione etc.), nel pieno rispetto del principio di uguaglianza;


- il principio personalista e della dignità umana (artt. 2, 3, 13, 27, 33): la Repubblica «riconosce il primato della persona al di sopra dello Stato (a prescindere dal sesso, religione etc.)» ne garantisce il «pieno sviluppo» e tutela la libertà dell’individuo di fronte a qualsiasi restrizione di libertà, aggressione ed abusi delle autorità costitute. Questo principio presuppone il rispetto dell’individuo soprattutto nei momenti più delicati della vita sociale (es. nelle carceri, durante il trattamento sanitario) nei quali la dignità umana può essere facilmente mortificata;


- il principio pluralista (artt. 2, 5), che esalta la comunità intermedie (formazioni sociali) fra individuo e Stato (famiglia, partiti, sindacati, collettività locali) considerate le sedi più idonee per la crescita e lo sviluppo della personalità. Al pluralismo delle istituzioni si affianca il principio del pluralismo ideologico (art. 21) che afferma la libertà di pensiero la quale si estrinseca nella libertà di espressione e diffusione delle proprie opinioni, credenze e idee in campo religioso, politico, sociale;


- il principio lavorista (artt. 1, 4, 39), che colloca il lavoro e i lavoratori al centro della vita del paese connotando così l’Italia come modello di «Stato sociale»;


- il principio solidarista (artt. 2, 4, 32, 52, 53, 54), che invita i cittadini ad adempiere ai doveri inderogabili di fratellanza e solidarietà; tale principio, oltre al dovere di difendere la patria e di essere fedeli alla Repubblica, impone l’obbligo di concorrere alle spese pubbliche (obblighi fiscali) secondo la propria capacità contributiva improntata al criterio della proporzionalità e progressività tributaria e in base al principio di antielusività per vietare ai contribuenti di sottrarsi agli obblighi contributivi;


- il principio di eguaglianza (art. 3) degli individui, sia di fronte alla legge che nella società. L’eguaglianza giuridica rappresenta una conquista indiscussa dello Stato di diritto, mentre l’eguaglianza sostanziale costituisce solo un’aspirazione, un traguardo ideale cui la Repubblica aspira attivandosi, comunque, alla rimozione degli ostacoli di ordine sociale ed economico che impediscono il libero sviluppo della personalità di ciascuno;


- il principio del decentramento amministrativo, della promozione e del riconoscimento delle autonomie locali (artt. 3, 5, 6, 114, 116 e artt. 114-113) in base al quale, nel rispetto del principio di unità e indivisibilità del territorio della Repubblica, si soddisfa la necessità di attuare forme di decentramento legislativo e amministrativo per avvicinare i governati ai governanti delle Comunità locali rispettando e tutelando le specificità dei diversi gruppi sociali presenti sul territorio;


- il principio di laicità e dell’uguaglianza del trattamento delle confessioni religiose (art. 8) sancisce il riconoscimento del pluralismo religioso secondo cui lo Stato, anche in presenza di una maggioranza di cittadini appartenente alla Chiesa Cattolica (art. 7), garantisce a tutti la libertà di professare (o non) qualsiasi fede, purché le manifestazioni religiose non siano contrarie alla legge, all’ordine pubblico e al buon costume.

 

Da una prima lettura di questi principi traspare la volontà del Costituente che, dopo la tragica esperienza della Seconda guerra mondiale, ha preso le distanze non solo dal regime fascista, ma anche dal precedente modello di Stato liberale, le cui contraddizioni ed incertezze avevano consentito, dal 1922 al 1943, l’instaurazione della dittatura. Il tipo di organizzazione statale delineato dal Costituente è, dunque, quello dello Stato sociale di diritto che si fa carico di intervenire attivamente nella società e nell’economia per garantire a tutti l’effettivo esercizio dei diritti e delle libertà.

Il progetto costituzionale contenuto nei principi fondamentali traccia anche le linee fondamentali della politica estera italiana. Si sancisce, a chiare lettere, il ripudio della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali e l’affermazione del principio pacifista (art. 11), cancellando definitivamente ogni aspirazione espansionistica basata su aggressioni armate contro altri popoli. Dopo la catastrofe fascista, lo Stato italiano ha rinnegato la violenza bellica come strumento di offesa agli altri popoli ed ha aderito all’Organizzazione delle Nazioni Unite (1955), alle Comunità Europee (1957, oggi Unione Europea) e alle successive forme di accordi internazionali soprattutto quelli aventi ad oggetto la tutela della pace, della sicurezza e dello sviluppo del mondo.

Articolo 1

L'Italia è una Repubblica democratica [139], fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo [48, 56, 58, 71, 75, 101] che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.

 

La Costituzione riassume all'articolo 1 il principio cardine dello Stato di diritto, che impone la separazione dei poteri e la supremazia della legge su tutti gli altri poteri pubblici, sottolineando il carattere democratico della Repubblica e affermando il primato della Costituzione che costituisce il manifesto dei principi e dei diritti fondamentali dell'uomo e del cittadino (cd. democrazia costituzionale). La Repubblica, dunque, si fonda esclusivamente sul consenso popolare e sulle regole da esso dettate direttamente (referendum) o indirettamente (partiti politici). Importante novità della Carta è il riconoscimento del lavoro come principio basilare della società per cui non ha più alcun peso politico il censo o i privilegi di nascita o casta. Tale dichiarazione non ha carattere classista (lo dimostra la mancata approvazione dell'emendamento col quale si voleva definire lo Stato italiano "Repubblica democratica di lavoratori", in analogia con le espressioni usate nelle Costituzioni delle democrazie socialiste), ma enuncia il fondamento sociale della nostra Repubblica, così come dettagliatamente specificato nelle successive norme costituzionali (v. 4, 35-38).

Articolo 2

La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità [18, 19, 20, 29, 39, 45, 49; c.c.] e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale.

 

La norma, in aperta polemica col totalitarismo fascista che non rispettava i diritti inviolabili dell'uomo, traduce in linguaggio giuridico tre principi:

- il principio personalista che riconosce e garantisce i diritti individuali dell'uomo come singolo;

- il principio pluralista che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo nell'ambito delle formazioni sociali;

- il principio solidarista che richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica, sociale.

In particolare, in base al principio personalista, al vertice dei valori riconosciuti dall'ordinamento giuridico si colloca la persona, sia nella sua dimensione individuale che in quella sociale, per cui è lo Stato chiamato ad agire in funzione della persona, non la persona per lo Stato (ONIDA).

La Costituzione, cancellando ogni retaggio del passato, non considera più l'essere umano come suddito di uno Stato «onnipotente» (come accaduto sotto la vigenza dello Statuto Albertino e dell'ideologia fascista), ma ne esalta la dignità, considerata quale valore umano inviolabile (cioè immodificabile) e supremo. La persona, titolare esclusiva delle libertà individuali (art. 13 e ss.) e dei diritti sociali (art. 32 e ss.) viene prima dello Stato ed è al centro di tutti i rapporti sociali: la Repubblica ha il dovere di attivarsi affinché non vengano meno le condizioni necessarie per il libero sviluppo della personalità di ciascun individuo. 

La Costituzione, in questo articolo, ha riconosciuto anche alle formazioni sociali un ruolo essenziale nella crescita dell’individuo, proteggendole da indebite interferenze dei pubblici poteri, rendendole destinatarie degli stessi diritti dell’individuo (principio del pluralismo sociale) e a cui fanno capo le cd. libertà collettive (ad es. il diritto di riunione e associazione, artt. 16 e 17).

Il principio pluralista è ulteriormente incentivato dalla nuova formulazione dell’art. 118, che impone ai pubblici poteri di favorire l’autonoma iniziativa dei cittadini, associati in comunità territoriali originarie costituzionalmente riconosciute, per lo svolgimento, anche in ambito locale, di attività di interesse generale, in alternativa all’intervento pubblico (sussidiarietà orizzontale).

L’ultimo comma afferma infine il principio solidarista, che impone ai cittadini non solo di rispettare le altrui libertà e diritti, ma anche e soprattutto offre la possibilità di contribuire alla concreta attuazione dei valori supremi del sistema, partecipando attivamente alla vita politica, economica e sociale. Da tale principio derivano precisi doveri a vantaggio della comunità, ai quali il singolo non può sottrarsi e che sono il vessillo dello «Stato sociale», forma di Stato che integra e completa quella dello «Stato di diritto» (art. 1 Cost.).

Articolo 3

Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

 

L’art. 3 può essere definito il «cuore della Costituzione» e ne rappresenta una delle principali chiavi di lettura: non a caso la Corte costituzionale ha definito il principio di uguaglianza il «principio generale che condiziona tutto l’ordinamento nella sua obiettiva struttura» e che l’eguaglianza dovrebbe essere promossa come condizione essenziale per lo sviluppo dell’essere umano.
In base a tale principio il Costituente ha sostenuto che la legge deve rivolgersi «egualmente» a tutti, governanti e governati, uomini e donne, cittadini e non cittadini, e nessuno può essere esentato dal rispettarla.
Pertanto il legislatore non può emanare leggi «ad personam» che favoriscano alcuni cittadini anche nel caso ricoprano importanti cariche istituzionali: costoro, anzi, devono per primi dare l’esempio del pieno e assoluto rispetto della Costituzione e delle leggi.
Questo articolo, dunque, costituisce sia il fondamento dello Stato di diritto (primo comma) che dello Stato sociale e intervenista (secondo comma):

- il primo comma nega rilevanza giuridica alla diversità di condizioni materiali in ossequio al principio «la legge è uguale per tutti»;
- il secondo comma, invece, basandosi proprio sulla presa d’atto delle diseguaglianze cui di fatto porta la «libertà economica» tipica dello Stato liberale, introduce un solidale concetto di «disparità di trattamento giuridico» a favore dei soggetti economicamente e socialmente più deboli e svantaggiati cui lo Stato è tenuto a rispondere con azioni positive per riequilibrare le pari opportunità.

L’art. 3 oltre al principio di eguaglianza, sancisce altri tre principi che consentono la civile convivenza democratica:

- il principio libertà che mira a garantire le libertà individuali e la loro compatibilità dinnanzi a tutti;
- il principio di differenza in quanto legittima l’esistenza di più classi sociali e, quindi, le differenze socio-economiche tra i sudditi;
- il principio di ragionevolezza che determina equi termini di convivenza favorendo i membri della società più svantaggiati conferendo alla Repubblica l’onere di rimuovere gli ostacoli economici (cioè le barriere classiste) tutte le volte che gli stessi impediscono il pieno sviluppo della persona.

Si noti, infine, che la Corte costituzionale, in veste di giudice supremo delle leggi, ha con scrupolosa attenzione e tempestività, dichiarato contrari alla Costituzione quegli atti normativi (leggi, decreti legge, ecc.) che a suo insindacabile giudizio non rispettano il principio di eguaglianza.

Il punto debole dell’art. 3 è che il Costituente afferma la pari dignità sociale come prerogativa esclusiva dei soli cittadini, discriminando colpevolmente tutti quelli che cittadini non sono e che, comunque, in quanto esseri umani, hanno pieno diritto al riconoscimento delle «pari dignità sociali». Ulteriore contraddizione si riscontra al secondo comma in cui il Costituente si limita a riconoscere unicamente ai soli lavoratori (escludendo inspiegabilmente le altre categorie sociali) una serie di diritti economici e sociali affianco a quelli definiti «inviolabili».

Articolo 4

La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

 

Lo Statuto Albertino, come tutte le Costituzioni liberali dell’Ottocento, non disciplinavano né la materia economica né il lavoro fondandosi sul principio liberalista del cd. laisser-faire, lasciare cioè che l’equilibrio economico che si regge sulle leggi della domanda e dell’offerta fosse determinato dal libero gioco di mercato a prescindere dalla necessità del raggiungimento dell’obiettivo del pieno impiego.
La nostra Costituzione, invece, cancellando ogni privilegio di classe o corporativo, pone a fondamento del nuovo ordinamento repubblicano il lavoro, ossia l’attività economica che accomuna senza discriminazioni tutti gli individui che lavorano sancendo l’obbligo del legislatore e dei poteri pubblici di perseguire una politica che favorisca la piena occupazione al fine di eliminare la piaga della disoccupazione.
Corollario di tale principio è il catalogo dei diritti sociali che il Costituente ha previsto nelle successive disposizioni costituzionali (artt. 35-38) che connotano il nostro come «Stato sociale» (la tutela di ogni forma di lavoro, il diritto ad una retribuzione proporzionata e adeguata, il diritto alle ferie e al riposo settimanale, il diritto all’eguale trattamento giuridico ed economico di uomini e donne a parità di qualifica etc.).
In definitiva, può sostenersi che la norma in esame sancisce un principio pluri-dimensionale che detta le regole generali e i principi cui debba ispirarsi il mercato del lavoro al fine di eliminare inique barriere di accesso, favorisce la stabilità e la durata del rapporto di lavoro e tutela, al contempo, la professionalità del prestatore.

Articolo 5

La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento.

 

Contrapponendosi all’ordinamento fascista (fortemente accentrato come tutte le dittature) in cui qualsiasi forma autonomistica era vietata, la Costituzione sancisce il principio del pluralismo territoriale, in base al quale lo Stato non ha più il monopolio delle funzioni sovrane grazie al riconoscimento dell’esistenza di autonomi centri di potere diversi da esso.
L’art. 5, infatti, nel ribadire l’intangibile principio di unità e individualità della Repubblica, oltre a riconoscere il principio del decentramento, sancisce i nuovi principi dell’autonomia, promuovendo nuove forme di autonomie locali.
Dall’esame della norma sono desumibili tre corollari fondamentali:
1. l’unità e l’indivisibilità territoriale della Repubblica riconosciuto come limite invalicabile al riconoscimento e alla promozione delle autonomie locali;
2. l’attuazione del più ampio decentramento amministrativo nella erogazione dei servizi per una più agevole fruibilità degli stessi da parte della collettività;
3. l’adeguamento della legislazione dello Stato alle esigenze dell’autonomia e del decentramento.
Il Costituente, dunque, si impegna a potenziare la «pluridimensionalità del cittadino» (PIZZETTI) ovvero il suo coinvolgimento in appartenenze diverse ed ulteriori rispetto a quella che lo lega alla comunità statale (Regioni etc.). «Decentramento» e «autonomia», pur non essendo sinonimi, perseguono lo stesso fine: consentono di avvicinare ai propri destinatari i servizi e le funzioni che dipendono dallo Stato: i cittadini e gli altri utenti finali dislocati sul territorio nazionale.
Per ciò che concerne l’autonomia riconosciuta agli enti territoriali, la stessa si identifica con la capacità dell’ente territoriale di formulare un proprio indirizzo politico e amministrativo in base alle istanze politiche e programmatiche, che, attraverso libere elezioni, provengono dalle comunità che li compone.
Lo Stato resta comunque, anche nell’ordinamento repubblicano, il principale ente sovrano centrale e indefettibile del sistema anche al fine di garantire a tutti gli individui una serie di doveri e poteri (es. identico trattamento dei cittadini su tutto il territorio statale, intervento sostitutivo straordinario a difesa dell’unità giuridica ed economica della Repubblica).
Tali doveri e poteri, infatti, fanno capo allo Stato-persona a salvaguardia di una politica nazionale generale unitaria che non può essere in alcun modo delegata agli enti locali, ma che invece, a livello economico, è da tempo nelle «mani» dell’Unione Europea.

Articolo 6

La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche.


La Costituzione, differentemente da quanto previsto da altre Carte costituzionali (come quella francese, spagnola, etc.), non indica la lingua ufficiale della Repubblica, ma si limita a ribadire il precetto già contenuto nell’art. 3 nella parte in cui vieta ogni forma di discriminazione in base alla lingua, impegnandosi a promuovere la tutela delle minoranze alloglotte che rientrano a pieno titolo nel novero delle «formazioni sociali» (art. 2). Il contenuto normativo dell’art. 6 non si limita a ribadire le prescrizioni dell’art. 3 che vieta qualsiasi forma di discriminazione, in base alla lingua, ma sancisce l’uguaglianza nella diversità e tutela le minoranze linguistiche da parte della Repubblica, rappresentando la principale espressione del mutato indirizzo politico adottato nei confronti delle minoranze dopo la caduta del regime fascista e la nascita di un nuovo Stato democratico, pluralista e sociale.
I diritti linguistici riconosciuti in genere alle minoranze sulla base di tale norma sono variegati: si va dal bilinguismo (nell’istruzione scolastica, nei rapporti con le pubbliche amministrazioni e nelle indicazioni topografiche) alla co-ufficialità della lingua francese e di quella tedesca, rispettivamente in Val d’Aosta e Trentino.
Anche le regole relative alle assunzioni nelle pubbliche amministrazioni devono essere ripartite in proporzione della consistenza numerica dei gruppi linguistici, alla garanzia dell’uso della lingua minoritaria nei rapporti tra cittadini e la pubblica amministrazione.
Una significativa manifestazione del riconoscimento della tutela e del rispetto delle minoranze linguistiche (senza, comunque, infrangere il principio innanzi enunciato) è ravvisabile nella formulazione dell’art. 116, così come modificato dalla L. 3/2001, che denomina la Valle d’Aosta in lingua francese (Vallée d’Aoste), mentre il Trentino-Alto Adige in lingua tedesca con il toponimo Südtirol.

Articolo 7

Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani.
I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale.


L’art. 7 disciplina esclusivamente i rapporti tra Stato e religione cattolica adottando due principi fondamentali: il principio della distinzione degli ordini e quello di bilateralità.
In base al primo, il fenomeno religioso viene considerato, nella sua dimensione sia individuale che collettiva, un fatto sostanzialmente distinto rispetto allo Stato (principio di separazione tra Stato e Chiesa). Il principio di bilateralità, invece, riconosce alla Chiesa cattolica (come a tutte le formazioni sociali con fini di culto) la possibilità di stipulare con la Repubblica accordi in materia religiosa. Pertanto, l’art. 7 che riconosce separatamente l’indipendenza e la sovranità della Chiesa cattolica e rappresenta un unicum nel panorama costituzionale non comparabile con alcuna disposizione costituzionale di altri paesi.
La nostra Costituzione, pur riconoscendo il principio di laicità, ufficialmente non qualifica in nessuna norma lo Stato italiano come «laico», come si verifica esplicitamente in numerosi ordinamenti costituzionali (ad es. l’art. 1 della Costituzione francese che dichiara apertamente che la Francia è una Repubblica laica).
Come sostenuto da parte della dottrina, deve parlarsi nel nostro caso di «laicità all’italiana» (CAMASSA), pur essendo l’Italia costituzionalmente definibile Stato laico.
La laicità, comunque, è da considerarsi un principio vigente, supremo ed inderogabile del nostro ordinamento a tutela della libertà religiosa la quale implica equidistanza, rispetto ed imparzialità verso tutti i culti e religioni.

Articolo 8

Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge.
Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano.
I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze.


L’art. 8 sancisce il principio del pluralismo delle confessioni religiose in contrapposizione al dettato dell’art. 1 dello Statuto albertino, che proclamava la sola religione cattolica come religione di Stato (principio del confessionismo di Stato).
La laicità dello Stato non rappresenta una forma di indifferenza nei confronti della religione, ma garantisce l’eguale tutela del sentimento di coscienza e di culto del singolo (indipendentemente dalla confessione che esprime) nonché una politica ispirata alla libertà religiosa, purché la stessa non intacchi i principi fondamentali dell’ordinamento, l’ordine pubblico e il buon costume.
La parità di disciplina legislativa in materia è, tuttavia, ancora lungi dall’essere garantita, se si considera che le diverse confessioni possono essere collocate in una scala gerarchica che vede al primo posto la Chiesa cattolica (che beneficia di fonti negoziali privilegiate come i concordati, in grado di incidere anche sulle norme costituzionali), poi le confessioni che hanno stipulato intese con lo Stato, infine, le altre confessioni disciplinate dalla legge sui culti cd. «ammessi» così definiti «in maniera palesemente discriminatoria» nel 1929.
Nel nostro Paese manca, cioè, una legislazione unitaria sulla libertà religiosa che garantisca livelli minimi di tutela a tutte le confessioni, ferma restando la possibilità per le singole religioni, di negoziare con lo Stato, contenuti ulteriori, idonei a garantire la libertà religiosa nel rispetto della peculiarità di ciascun credo.

Articolo 9

La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica.
Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione.


Mentre lo Statuto Albertino non conteneva alcun riferimento alla «cultura», l’articolo 9 delinea tutti i tratti fondamentali della nostra «Costituzione culturale», coinvolgendo in prima persona i poteri pubblici e privati ed enuncia due principi fondamentali:
- da una parte garantisce la promozione e lo sviluppo di cultura e ricerca: la Repubblica in tutte le sue articolazioni si impegna ad incentivare il progresso culturale, scientifico e tecnico del Paese e a salvaguardare la libertà dell’arte e della scienza;
- dall’altra promuove la tutela del paesaggio e dei beni culturali ed ambientali aderendo ad una concezione essenzialmente difensivista dei beni paesaggistici, culturali e ambientali.
In particolare:
- per quanto riguarda il paesaggio, la tutela consiste nella «regolazione cosciente degli interventi sul territorio», nella «direzione della costruzione del paesaggio, nella scelta fra i diversi interessi e le diverse possibilità di uso e di destinazione» (PREDIERI);
- in merito ai beni culturali, la tutela tende non solo alla preservazione dell’integrità fisica del bene, ma anche nella valorizzazione della funzione del bene intesa come massima «fruibilità» (ROLLA) per i cittadini di oggi e di domani.
In particolare, in riferimento all’ambiente, la tutela non si sostanzia solo nel riconoscimento del valore «naturalistico» del bene, ma anche nella promozione degli aspetti culturali ed educativi.
L’articolo privilegia una lettura unitaria del fenomeno, nel senso che «sviluppo, ricerca, cultura, patrimonio formano un tutto inscindibile» (CIAMPI).
Malgrado all’articolo 9 (comma 1) lo Stato si assuma direttamente e prontamente l’impegno a promuovere lo sviluppo della cultura e della ricerca, occorre osservare che nel recente passato l’atteggiamento del nostro Paese è andato decisamente nel senso opposto a questo principio.
La politica «culturale» degli ultimi governi, a tutti i livelli, a partire dalla ricerca universitaria, ha tagliato una parte significativa dei fondi ad essa destinati, causando, oltre alla dequalificazione culturale degli italiani, anche una preoccupante fuga dei migliori cervelli all’estero.
Questo articolo, alla luce delle grandi problematiche suscitate dall’inquinamento del pianeta che minaccia l’umanità, andrebbe completamente riformato al fine di evidenziare come prioritario il concetto di tutela e difesa dell’ambiente, nonché di esplicitare una maggiore e più attenta apertura alle organizzazioni internazionali per favorire una valutazione «sopranazionale» dei rischi ecologici e climatici etc. cui il pianeta va incontro al fine di ottenere una risposta forte, collettiva e imperativa alle scottanti, urgenti e indifferibili necessità di tutela dell’ecosistema.

Articolo 10

L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute.
La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattamenti internazionali.
Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge.
Non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici.


Lo Stato italiano vive ed opera attivamente in un contesto internazionale che aspira alla tutela universale della pace, della giustizia e del rispetto dei diritti inviolabili dell’uomo, principi: da ciò deriva l’impegno a rispettare le norme del diritto internazionale sia scritte (purché frutto di spontanea adesione) si non scritte (consuetudini), alle quali questo articolo fa espresso riferimento.
Ciò spiega l’ingresso automatico nell’ordinamento interno delle consuetudini internazionali nonché l’apertura ai rapporti internazionali a tutela dei valori di libertà e democrazia enunciati dalla Costituzione in opposizione al precedente regime fascista (apertamente nazionalista) e in linea con i principi espressi nell’Assemblea costituente.
L’art. 10 costituisce una norma sulla produzione giuridica, perché detta le modalità per recepire nel nostro ordinamento le norme del diritto internazionale generale (cioè le consuetudini) e prevede un adattamento automatico permanente (mentre per l’adozione delle norme pattizie occorre stipulare un apposito trattato).
Questa disposizione, in linea con il principio del rispetto della dignità umana, tutela lo straniero sia da potenziali abusi e discriminazioni del potere amministrativo e giurisdizionale nei suoi confronti (comma 2), sia da persecuzioni da parte dello Stato di appartenenza se ritenuto non democratico da cui sia fuoriuscito (comma 3 e 4) il richiedente asilo diplomatico.
La Repubblica, così, da un lato si impegna a garantire che non attua azioni discriminatorie tendenti a colpire gli stranieri soprattutto in materia di lavoro; d’altra parte, vigila sul rispetto dei principi umanitari e di solidarietà costituiti dal coacervo di diritti inalienabili a tutela della dignità di qualsiasi essere umano, a prescindere dalla sua nazionalità.

Articolo 11

L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

L’articolo 11 mette in luce la «vocazione internazionalista» del nostro Paese enunciando i principi che orientano la posizione dell’Italia in riferimento al ripudio della guerra e all’accettazione delle limitazioni della sovranità nazionale ritenute necessarie al fine di consentire la partecipazione della Repubblica alle organizzazioni internazionali che promuovono la pace e la giustizia fra i popoli.
Il Costituente, attraverso tale disposizione, ha inteso sancire il principio pacifista, solidarista e di giustizia universale in base ai quali lo Stato si obbliga a rinunciare alla guerra di aggressione e si impegna a ricorrere a qualsiasi attività negoziale pacifica per assicurare la pace e la giustizia fra le nazioni: in tal senso assumono rilievo non solo gli accordi o i trattati stipulati a tali fini, ma anche quelle intese che assicurino tali valori indirettamente o in via secondaria.
Tale disposizione è stata anche utilizzata per legittimare l’adesione italiana alle Comunità europee (oggi Unione Europea). Tale adesione ha comportato due importanti conseguenze:
- l’efficacia diretta di alcune norme europee (es. regolamenti) nel nostro ordinamento senza necessità di procedure interne di adattamento o recezione;
- il conseguente riconoscimento del primato (cioè della prevalenza) delle norme dell’Unione europea nel diritto interno che toglie vigore alle norme nazionali in contrasto con la normativa europea e che porta alla disapplicazione della legge nazionale contraria alla normativa europea.

Articolo 12

La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni.


Come le altre Carte costituzionali, anche la Costituzione italiana contiene un articolo sulla bandiera che ne descrive gli elementi essenziali.
La collocazione della disposizione, all’interno dei principi fondamentali, appare particolarmente significativa in quanto impedisce che forme e colori della bandiera possano essere modificati da una legge ordinaria. La «rigidità» di tale norma costituzionale sull’emblema dello Stato italiano comporta anche l’impossibilità di adottare simboli differenti o addirittura sostitutivi come il caso dei vessilli della sedicente «regione Padania».
Si ricorsi, infine, che il D.P.R. 121/2000 e la L. 22/1958 dettano le regole per l’affianco alla bandiera nazionale, su tutti gli edifici pubblici, di quella dell’Unione Europea.