Aristotele

 

Gli anni che separano Platone (428 – 347 a.C.) da Aristotele (384 – 322 a.C.) sono relativamente pochi. Eppure la situazione politica della Grecia in cui Aristotele si trova a vivere è già profondamente diversa da quella del suo maestro. Infatti, mentre Platone vive la realtà delle poleis (città-stato indipendenti) e cerca di risolvere la crisi della sua polis Atene, Aristotele vive un periodo in cui la crisi della polis è ormai irreversibile: dalla metà del IV secolo le poleis greche cadono sotto il dominio macedone, come conseguenza perdono la propria indipendenza, la democrazia cade e con essa anche la libertà del cittadino, che non può più partecipare attivamente alla vita politica della polis a cui appartiene essendo che la Grecia è ormai guidata dal sovrano. Da ciò la perdita dell’interesse politico e l’emergere di altri interessi, soprattutto conoscitivi ed etici, che costituiranno una della caratteristiche dell’età ellenistica o alessandrina. 
 

1. VITA
Aristotele nacque a Stagira nel 384-383 a.C. ed entrò nella scuola di Platone a 17 anni. Vi rimase sino alla morte del maestro, cioè per 20 anni. Alla morte di Platone, Aristotele lasciò l’Accademia e si recò ad Asso, dove, con altri due scolari di Platone, Erasto e Corisco, ricostituì una piccola comunità platonica, dove probabilmente egli tenne per la prima volta un insegnamento autonomo. Nel 342 fu chiamato da Filippo re di Macedonia a Pella per assumere l’educazione di Alessandro. Aristotele poté così formare lo spirito del grande conquistatore, al quale comunicò indubbiamente la sua convinzione della superiorità della cultura greca. Più tardi Alessandro assunse nel suo governo le forme di un principato orientale, e Aristotele si staccò da lui. Nel 335-334, dopo 13 anni, Aristotele tornò ad Atene. La scuola che egli fondò, il Liceo, comprendeva oltre l’edificio e il giardino, la passeggiata o peripato da cui prese il nome (Scuola peripatetica). Nel 323 la morte di Alessandro provocò l’insurrezione del partito nazionalista ateniese contro il dominio macedone e mise in pericolo Aristotele. Egli fuggì allora a Calcide nell’Eubea. Nel 322-321 una malattia di stomaco pose fine ai suoi giorni.
 

2. OPERE
Le opere di Aristotele si dividono in due gruppi:
• gli scritti essoterici, scritti in forma dialogica e destinati al pubblico;
• gli scritti esoterici o acroamatici, costituiti dagli appunti di cui si serviva per l’insegnamento e destinati ai discepoli.
Del primo gruppo sono rimasti che pochi frammenti e qualche titolo tra cui il Protrettico (= discorso esortativo). Del secondo gruppo abbiamo invece la maggior parte dei trattati:
• scritti di logica, noti complessivamente con il nome di Organon,
• scritti di fisica, di storia naturale, di matematica e di psicologia,
• scritti di etica, politica, economia, poetica e retorica.
 

3. IL DISTACCO DA PLATONE E L’ENCICLOPEDIA DEL SAPERE
Platone e Aristotele si collocano in due contesti storico-culturali diversi e ciò incide sui loro interessi: i due sommi maestri del pensiero greco discordano, infatti, tra di loro, per la diversa concezione generale degli scopi e della struttura del sapere. Per Platone la ricerca e la conoscenza hanno una finalità politica, sono cioè finalizzate alla realizzazione di uno stato che realizzi la giustizia. Aristotele fissa lo scopo della filosofia nella conoscenza disinteressata del reale. Quindi se in Platone prevale il momento politico-educativo, in Aristotele predomina quello conoscitivo e scientifico.
A questa diversità di interessi corrispondono due versioni della realtà diverse. Platone guarda il mondo secondo un’ottica verticale e gerarchica, che distingue tra realtà “vere” e realtà “apparenti” da un lato e fra conoscenze “superiori” e conoscenze “inferiori” dall’altro. Aristotele invece, nella maturità del suo pensiero, giunge a guardare il mondo secondo un’ottica unitaria, che considera tutte le realtà su di un piano di pari dignità ontologica e tutte le scienze su di un piano di pari dignità gnoseologica. Aristotele ritiene, infatti, che la realtà, pur essendo unitaria, si divida in “regioni”, che costituiscono ciascuna l’oggetto di studio di un gruppo di scienze basate su principi propri e formanti, nel loro insieme, un’enciclopedia del sapere, in cui si rispecchiano i multiformi aspetti dell’essere. Così dicendo, Aristotele rispecchia la situazione culturale del IV secolo a.C., caratterizzata da una molteplicità di scienze in espansione che, resasi autonome dalla filosofia, definivano uno specifico ed esclusivo settore di competenza e i principi e i metodi sulla base dei quali studieranno quel settore. Però Aristotele ritiene che la filosofia, intesa come metafisica (= scienza dell’essere) si differenzi dalle altre scienze perché essa, anziché prendere in considerazione le varie facce della realtà o dell’essere, si interroga sull’essere o sulla realtà in quanto tali. In tal modo, la filosofia diventa la scienza prima, ossia la disciplina che studia l’oggetto (l’essere) e i principi (i principi dell’essere) comuni a tutte le scienze. Il discorso della filosofia sui caratteri generali dell’essere sta, quindi, a monte di tutti gli altri discorsi delle altre scienze. Così concepita, la filosofia appare come l’anima unificatrice e organizzatrice delle scienze, in quanto studia il loro comune fondamento prospettando un quadro completo ed esauriente di tutte le discipline, nei loro rapporti di coordinazione e subordinazione. 
 

4. LA METAFISICA DI ARISTOTELE
Aristotele distingue tre gruppi di scienze: le scienze teoretiche, quelle pratiche  e quelle poietiche o produttive. Le scienze teoretiche hanno per oggetto il necessario (ossia ciò che non può essere diverso da quello che è) e hanno come scopo la conoscenza disinteressata della realtà. Esse sono la metafisica (che si occupa della realtà), la fisica (che si occupa dei fenomeni naturali) e la matematica (che si occupa dei numeri).
Le scienze pratiche e poietiche hanno per oggetto il possibile (ossia ciò che può essere diverso da quello che è) e hanno come scopo l’illuminazione dell’agire. Le prime (l’etica e la politica) indagano l’ambito dell’agire individuale e collettivo; le seconde studiano l’ambito della produzione di opere o della manipolazione dei oggetti (le arti belle e tecniche).

4.1. IL CONCETTO DI METAFISICA. Il termine metafisica non è aristotelico. Con esso la posteriorità e la tradizione hanno indicato quella parte  della filosofia che indaga le strutture profonde e le cause ultime del reale, che vanno al di là delle apparenze immediate dei sensi o del campo di studio della fisica. Per indicare tale disciplina, Aristotele usava l’espressione «filosofia prima». La nascita della parola “metafisica” risale al primo commentatore di Aristotele, Andronico di Rodi, che nel I secolo a.C., ordinando i capolavori aristotelici, mise «metà ta physikà», cioè oltre i libri di fisica, le opere di filosofia prima.
Nelle sue opere Aristotele da quattro definizioni di metafisica:
a) la metafisica «studia le cause e i principi primi»,
b) la metafisica «studia l’essere in quanto essere»,
c) la metafisica «studia la sostanza»,
d) la metafisica «studia Dio e la sostanza immobile».
Di questi quattro significati, quello su cui Aristotele ha insistito maggiormente è il secondo. Sostenere che la metafisica studia l’essere in quanto essere equivale a dire che essa non ha per oggetto una realtà particolare, bensì la realtà in generale, cioè l’aspetto fondamentale e comune di tutta la realtà. Solo la metafisica considera l’essere in quanto tale, studiando le caratteristiche universali che strutturano l’essere come tale e quindi tutto l’essere e ogni essere. Per questo la metafisica è la «filosofia prima» mentre le altre scienze sono «filosofie seconde».
Quindi la metafisica è lo studio dell’essere.

4.2. I SIGNIFICATI DELL’ESSERE E LA SOSTANZA. Per essere Aristotele non intende una realtà semplice e univoca, ma una realtà complessa e poliedrica, che si esprime originariamente in una molteplicità di significati:
• l’essere come accidente;
• l’essere come categorie;
• l’essere come vero;
• l’essere come potenza e atto.
Per categorie Aristotele intende le caratteristiche fondamentali e strutturali dell’essere, cioè quelle determinazioni generalissime che ogni essere ha e non può fare a meno di avere. Esse sono: la sostanza, la qualità, la quantità, la relazione, l’agire, il subire, il dove (il luogo), il quando (il tempo). A queste otto Aristotele ne aggiunge talora altre due, che sono l’avere e il giacere, ossia lo stato e l’essere in una certa situazione.
Se dal punti di vista ontologico le categorie sono i generi supremi dell’essere, ossia i modi fondamentali in cui la realtà si presenta, dal punto di vista logico sono i vari modi con cui l’essere si predica delle cose nelle proposizioni, cioè quei predicati primi o fondamentali che fungono da grandi caselle entro cui rientrano o si collocano tutti gli altri predicati possibili. La categoria più importante è quella della sostanza, poiché tutte le altre, in qualche modo, la presuppongono. Quindi la sostanza è il polo unificante o il centro di riferimento delle categorie. Secondo Aristotele, l’essere non ha né un unico significato né parecchi significati completamente diversi fra loro, bensì una molteplicità di significati uniti fra loro da un comune riferimento alla sostanza. Quest’ultima rappresenta dunque il senso unitario che raccoglie tutti i significati dell’essere poiché ogni cosa può venir detta “essere” in quanto esprime la sostanza o qualche aspetto di essa.

4.3. LA SOSTANZA. Per sostanza Aristotele intende l’individuo concreto che funge da soggetto reale di proprietà e da soggetto logico di predicati. Per sottolineare la concretezza individuale della sostanza, Aristotele la chiama anche «tóde tì», ossia «questo qui». Il soggetto sostanziale è un ente autonomo, cioè qualcosa che, a differenza delle qualità che gli si riferiscono, ha vita propria. Per cui, l’essere è nient’altro che un insieme di sostanze e di qualità di tali sostanze. Ognuna di queste sostanze forma un sìnolo, cioè l’unione indissolubile di due elementi: la forma e la materia.
Per forma Aristotele non intende l’aspetto esterno di una cosa, ma la sua natura propria, ossia la struttura che la rende quella che è. Per materia Aristotele intende il soggetto di cui una cosa è fatta, ossia il materiale recettivo che la compone e che ne funge da sostrato del suo divenire.
La forma è l’elemento attivo e determinante del sinolo, che struttura la materia, mentre la materia è l’elemento passivo e determinato, che viene strutturato dalla forma. Di conseguenza si può dire anche che la forma sia ciò che costituisce la “sostanzialità” della sostanza, ovvero ciò che fa si che un individuo sia quello che è (= la sua essenza). Aristotele chiama sostanza sia il sinolo che la sola forma perché, dal punto di vista empirico, la sostanza è l’individuo (= il sinolo), mentre dal punto di vista metafisico, la sostanza è la sola forma (= essenza delle cose).
La sostanza (come forma) è l’essenza necessaria di una cosa, la struttura fissa e immutabile che la definisce e la organizza. Da essa si deve dunque distinguere l’accidente (un altro dei significati basilari dell’essere) che designa le qualità che una cosa può avere o non avere, senza per questo cessare di essere quella determinata cosa o sostanza. Quindi l’accidente esprime una caratteristica casuale o fortuita della sostanza.

4.4. LE QUATTRO CAUSE. La teoria della sostanza è connessa alla dottrina delle quattro cause. Aristotele enumera quattro tipi di causa per spiegare l’essere: causa materiale, formale, efficiente e finale.
• La causa materiale è la materia, ossia ciò di cui una cosa è atta e che rimane nella cosa.
• La causa formale è la forma o il modello, cioè l’essenza necessaria di una cosa.
• La causa efficiente è ciò che dà inizio al mutamento o alla quiete, ossia ciò che origina qualcosa.
• La causa finale è lo scopo cui una cosa tende.

4.5. LA CRITICA ALLE IDEE PLATONICHE. Il bersaglio principale della polemica aristotelica è Platone e i platonici. Aristotele afferma infatti che, essendo le idee fuori dalle cose o separate da esse (come affermava Platone), non si capisce bene in che senso possano essere causa delle cose stesse. Il principio delle cose non può che risiedere nelle cose stesse, ossia nella loro forma interiore. A questa critica, Aristotele fa seguire altre obiezioni. Egli sostiene che le idee sono inutili doppioni, che complicano, anziché semplificare, ciò che devono rendere comprensibile. Infatti le idee devono essere in numero maggiore degli stessi oggetti sensibili, poiché deve esserci l’idea non solo delle sostanze singole, ma anche di tutti i loro modi o caratteri che possono essere raccolti sotto un unico concetto. Le idee sono quindi altrettante realtà che si aggiungono alle realtà sensibili: così il filosofo si trova a dover spiegare, oltre quest’ultime, anche le prime, andando incontro a difficoltà maggiori rispetto a che si trovasse di fronte al solo mondo sensibile.

4.6. LA DOTTRINA DEL DIVENIRE. Connesso alla dottrina delle quattro cause è il problema del divenire. La scuola eraclitea aveva insegnato che nell’universo tutto muta, quindi che il divenire esiste è un fatto. Il problema è come debba essere pensato il divenire. Parmenide aveva dichiarato che il divenire è qualcosa di impensabile, poiché implica il passaggio dall’essere al non essere, comportando quindi l’esistenza del nulla.
Anche Aristotele sostiene che il divenire sarebbe irreale se esso consistesse nel passaggio dal non-essere all’essere e viceversa: tale passaggio è infatti impossibile, perché dal nulla, nulla può venir fuori e perché l’essere non può mai cadere nel nulla. Aristotele ritiene invece che il divenire implichi semplicemente un passaggio da un certo tipo di essere a un altro certo tipo di essere. Aristotele ritiene dunque che l’unica realtà sia l’essere e che il divenire sia soltanto una modalità dell’essere.
Per pensare la realtà del divenire, Aristotele elabora i concetti di potenza ed atto. Per potenza si intende la possibilità, da parte della materia, di assumere una determinata forma. Per atto si intende la realizzazione di tale capacità, cioè l’assunzione di quella forma. La potenza sta alla materia come l’atto sta alla forma. Infatti, per definizione, la materia è la possibilità di assumere forme diverse, mentre la forma, per definizione, è la realtà in atto di tali possibilità.
Il punto di partenza del divenire è quindi la materia priva di una certa forma, mentre il punto di arrivo è l’assunzione di tale forma. L’atto è chiamato anche entelechia (dal greco entelécheia, che deriva da entélei ekhein, “essere compiuto, essere in atto”) che è, appunto, il termine finale del movimento, cioè la compiuta realizzazione della potenza. Aristotele ritiene che l’atto possegga una priorità gnoseologica, cronologica e ontologica nei confronti della potenza. Infatti la conoscenza della potenza presuppone un’implicita conoscenza dell’atto, di cui essa è potenza. Inoltre l’atto è temporaneamente prima della potenze, giacché è vero che il seme (potenza) è prima della pianta, ma il seme non può che essere derivato che da una pianta già in atto. Quindi l’atto è ontologicamente superiore alla potenza in quanto esso costituisce la causa efficiente e finale della potenza e, più che un’autentica possibilità, esso esprime una necessità.   
Forma e materia, atto e potenza danno ragione del divenire. Accanto a queste, il movimento presuppone anche altre due cause: la causa efficiente, che dà inizio al divenire, e la causa finale, che è il fine del divenire. In natura una stessa cosa può essere considerata materia (potenza) o forma (atto) dal punto di vista del movimento che essa mette a capo (ad esempio, il pulcino è potenza rispetto alla gallina ma atto rispetto all’uovo). Questa catena, secondo Aristotele, suppone due termini estremi. Da un lato, presuppone una materia pura o materia prima che sia pura potenza, assolutamente priva di determinazioni. Questa materia prima è la materia-madre di cui aveva già parlato Platone nel Timeo. Essa, essendo assolutamente indeterminata, è pura nozione teorica, o un concetto-limite, che noi ammettiamo come base o sostrato di ogni divenire. Dall’altro lato, il divenire dell’universo suppone una forma pura o atto puro, cioè una perfezione completamente realizzata. Questa forma pura costituisce la sostanza più alta dell’universo, la sostanza immobile e divina, oggetto della teologia.

4.7. LA CONCEZIONE ARISTOTELICA DI DIO. Nella Metafisica (e nella Fisica) Aristotele fornisce una prova dell’esistenza di Dio che diverrà celebre. Aristotele, basandosi sulla cinematica, ossia la teoria generale del movimento, afferma che tutto ciò che è in moto è necessario sia mosso da altro. Quest’altro poi, se è a sua volta messo in moto, è necessario sei mosso da altro ancora. Ovviamente, in questo processo di rimandi, non è possibile risalire all’infinito. Per cui ci deve per forza essere un principio assolutamente «primo» e «immobile», causa iniziale di ogni movimento possibile. Aristotele identifica il «motore immobile» richiesto dal movimento con Dio, riferendogli una serie di attributi strettamente connessi tra loro:
• Dio è atto puro, ossia atto senza potenza, poiché dire potenza è dire possibilità di movimento, mentre Dio, essendo immobile, non può essere soggetto al divenire. Come tale, esso non può contenere in sé alcuna materia, dato che la materia sta alla potenza come la forma sta all’atto.
• Dio è pura forma o sostanza incorporea.
Secondo Aristotele Dio non muove come causa efficiente, cioè comunicando un impulso, ma come causa finale, cioè come oggetto d’amore, allo stesso modo in cui l’oggetto amato, pur rimanendo immobile, determina il movimento dell’amante verso di sé.
Quindi Dio è un Perfezione o una Forma che, pur rimanendo impassibile, esercita una forza calamitante sul mondo, comunicandogli il movimento. Per spiegare qual è il senso preciso dell’anelito del mondo verso Dio, da cui nasce sia il movimento sia l’ordine delle cose, Aristotele afferma che i protagonisti della storia dell’universo sono due; da un lato abbiamo la materia prima, che essendo priva di forme, e quindi “affamata” di esse, tende verso la forma e la perfezione, dall’altro lato abbiamo Dio, che è la Forma e la Perfezione stessa, che “attrae” verso di sé la materia prima. Di conseguenza, l’universo è lo sforzo della materia verso Dio e quindi, in pratica, un desiderio incessante di prendere forma. Per cui, nell’universo aristotelico, non è tanto Dio che ordina o forma il mondo, ma è piuttosto il mondo che, aspirando a Dio, si auto-ordina e auto-determina, assumendo le varie forme delle cose. Dio, che è Atto puro, Sostanza incorporea, Essere eterno e Causa finale del mondo, rappresenta la realtà di ogni possibilità e costituisce un’entità perfetta e totalmente compiuta. A questa perfezione massima deve appartenere, evidentemente, il genere di vita più alto ed eccellente. La vita migliore è quella dell’intelligenza, alla quale l’uomo si solleva solo per brevi periodo, mentre Dio ne gode continuamente. Ma cosa pensa Dio? Egli, essendo perfetto, non può che pensare alla perfezione stessa, ossia se medesimo. Dio sarà dunque pensiero del pensiero.
 

5. LA LOGICA DI ARISTOTELE
Nella classificazione aristotelica delle scienze non trova posto la logica, poiché essa ha per oggetto la forma comune di tutte le scienze, cioè il procedimento dimostrativo, o le varie modalità di ragionamento, di cui esse si avvalgono. Inoltre il termine “logica” (dal greco lógos, che significa “parola”, “discorso”, ma anche “pensiero” e che allude allo studio del pensiero espresso nei discorsi) non è aristotelico. Aristotele usava piuttosto il termine analitica (dal greco anàlysis, “risoluzione”), alludendo, con tale espressione, al metodo di risoluzione del ragionamento nei suoi elementi costruttivi.
Anche il termine Organon non è aristotelico. Esso fu adoperato per la prima volta da Alessandro di Afrodisia (uno dei più grandi commentatori e interpreti di Aristotele vissuto tra il II e il III secolo d.C.) per designare la logica e, in seguito, a partire dal VI secolo d.C. per denominare l’insieme degli scritti aristotelici relativi a tale argomento.
L’Organon aristotelico si articola in:
logica del concetto (sviluppata nel libro Categorie)
logica della proposizione (sviluppata nel libro Sull’interpretazione)
logica del ragionamento (trattata negli Analitici primi e negli Analitici secondi)
sillogismo dialettico (trattato nei Topici)
argomentazioni sofistiche (trattate nelle Confutazioni sofistiche).

5.1. I CONCETTI. Secondo Aristotele gli oggetti del nostro discorso, cioè i concetti, possono essere ordinati a seconda delle loro maggiore o minore universalità e classificati mediante un rapporto di genere e specie. Ogni concetto di un determinato settore è infatti specie (perciò il contenuto) di un concetto più universale (= che può essere riferito a più individui) e genere (perciò contenente) di un concetto meno universale (= che può essere riferito a meno individui).  
Esempio: essere – essere vivente – animale – vertebrato – mammifero – scimmia – orango . orango africano.
Rispetto al genere, la specie è un concetto che ospita un maggior numero di caratteristiche, ma che può essere riferito a un minor numero di individui. Viceversa, rispetto alla specie, il genere è un concetto che ospita un minor numero di caratteristiche ma che può venir riferito a un maggior numero di individui. L’insieme delle note o qualità caratteristiche di un concetto è chiamato comprensione, mentre il numero degli esseri cui fa riferimento un concetto  è detto estensione. Comprensione ed estensione stanno tra di loro in un rapporto inversamente proporzionale, in quanto, arricchendosi l’uno si impoverisce l’altro. Quindi:
- rispetto al genere, la specie è più comprensiva, meno estesa
- rispetto alla specie, il genere è meno comprensivo, più esteso.
La scala complessiva dei concetti, percorsa in senso discendente (dal più al meno universale) offre un progressivo aumento di comprensione e una progressiva diminuzione di estensione, fino a giungere ad un concetto che è solo specie e non genere, chiamato concetto di specie infima e che presenta la massima comprensibilità e la minima estensione. Dal punto di vista ontologico, il concetto di specie infima corrisponde alla sostanza prima o individuo. Dal punto di vista logico, il concetto di specie infima è sempre soggetto di predicato.
Percorsa in senso ascendente (dal meno al più universale) la scala dei concetti offre invece un graduale aumento di estensione e una graduale diminuzione di comprensione, sino ad arrivare ai genere sommi, che contengono ma non sono contenuti e che hanno il massimo di estensione e il minimo di comprensione. Tali sono le dieci categorie che, dal punti di vista logico, sono i modi generalissimi in cui l’essere si predica delle cose nelle proposizioni.

5.2. LE PROPOSIZIONI. Aristotele prende in esame solo gli enunciati dichiarativi, ossia frasi che costituiscono asserzioni. Tali enunciati si identificano con le proposizioni, che costituiscono l’espressione verbale dei giudizi, cioè degli atti mentali con cui uniamo o disuniamo determinati concetti nella struttura di base soggetto-predicato.
Rispetto alla qualità le proposizioni possono essere affermative o negative. Rispetto alla quantità, le proposizioni possono essere universali (quando il giudizio si riferisce a tutti gli individui compresi nel concetto, cioè quando il soggetto è universale) e particolari (quando il giudizio si riferisce solo ad una parte degli individui a cui posso riferire un concetto, cioè quando il soggetto si riferisce ad una classe particolare). A queste due proposizioni, che sono quelle su ci si basa la sillogistica aristotelica, si possono aggiungere le proposizioni singolari (quando il soggetto è un ente singolo). Aristotele ha dedicato particolare attenzione al rapporto esistente tra le proposizioni universali (affermative o negative) e le proposizioni particolari (affermative o negative). Questi rapporti furono riassunti dai logici medievali in un  quadrato, chiamato Quadrato degli opposti, ai cui vertici ci sono quattro lettere: A, E, I ed O. Alla lettera A (prima vocale della parola latina adfirmo) corrisponde la proposizione universale affermativa. Alla lettera E (prima vocale della parola latina nego) corrisponde la proposizione universale negativa. Alla lettera I (seconda vocale della parola latina adfirmo) corrisponde la proposizione particolare affermativa). Alla lettera O (seconda vocale della parola latina nego) corrisponde la proposizione particolare negativa.

 

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È detta contraria l’opposizione fra l’universale affermativa e l’universale negativa. Due proposizioni contrarie possono essere entrambe false ma non entrambe vere. È detta contraddittoria l’opposizione fra l’universale affermativa e la particolare negativa  e fra l’universale negativa e la particolare positiva. Due proposizioni contraddittorie, escludendosi a vicenda, devono essere necessariamente una vera e l’altra falsa. È detta sub-contraria l’opposizione tra la particolare affermativa e la particolare negativa. Due proposizioni sub-contrarie possono essere entrambe vere, ma non entrambe false. È detta sub-alterna la relazione tra l’universale affermativa e la particolare affermativa e fra l’universale negativa e la particolare negativa. In questo tipo di proposizioni, dalla verità dell’universale si inferisce la verità della particolare, mentre dalla verità della particolare non si inferisce la verità dell’universale. Al contrario, dalla falsità dell’universale non si inferisce la falsità della particolare, mentre dalla falsità della particolare si può inferire la falsità dell’universale.
Usando un linguaggio simbolico, Aristotele considera anche il modo in cui avviene l’attribuzione di un predicato a un soggetto, distinguendo:
asserzione: A è B
possibilità: A è possibile che sia B
necessità: A è necessario che sia B.
A proposito di concetti e proposizioni, Aristotele fa considerazioni di tipo logico e filosofico, affermando che i singoli termini, cioè i singoli concetti, non sono né veri né falsi: vero o falso è il giudizio, cioè la congiunzione o disgiunzione di concetti. Da ciò derivano i due teoremi fondamentali di Aristotele a proposito della verità:
1. La verità è nel pensiero o nel discorso, non nell’essere o nella cosa
2. La misura della verità del pensiero e del discorso è l’essere. Quindi il giudizio è vero se congiunge ciò che è congiunto nella realtà, ed è falso se congiunge ciò che nella realtà è disgiunto oppure se disgiunge ciò che nella realtà è congiunto.
Questo teorema testimonia l’empirismo di Aristotele, una dottrina della conoscenza secondo la quale i criteri di conoscenza derivano dall’esperienza.

5.3. IL SILLOGISMO. Secondo Aristotele, quando noi formuliamo proposizioni isolate, ovvero non connesse fra loro, non ragioniamo. Noi ragioniamo, invece, quando passiamo da proposizioni a proposizioni che abbiano fra di loro determinati nessi e che siano le une cause di altre, le une antecedenti, le altre conseguenti. Il sillogismo è precisamente il ragionamento per eccellenza, ovvero: «un discorso (= ragionamento) in cui poste talune cose (= le premesse) segue necessariamente qualcos’altro (= la conclusione) per il semplice fatto che quelle sono state poste».
La conclusione a cui si arriva è necessaria e segue il principio di non-contraddizione.

PREMESSA MAGGIORE            Ogni animale          è        mortale
                                                 (termine medio)                (termine maggiore)
PREMESSA MINORE                 Ogni uomo              è        animale
                                                 (termine minore)               (termine medio)
CONCLUSIONE                         Ogni uomo              è        mortale
                                                 (termine minore)               (termine maggiore)

Il sillogismo tipo, ossia quello di prima figura, risulta composta da tre proposizioni, due delle quali (premessa maggiore e premessa minore) fungono da antecedenti e la terza (conclusione) da conseguente.
Inoltre nel sillogismo si hanno tre termini o elementi:
• il termine maggiore o estremo maggiore: ha l’estensione maggiore e compare come predicato della premessa maggiore e della conclusione
• il termine minore o estremo minore: ha l’estensione minore e compare come soggetto della premessa minore e della conclusione
• il termine medio: compare come soggetto nella premessa maggiore e come predicato nella premessa minore.
Il termine medio è l’unico che funge sia da soggetto che da predicato, questo perché il termine medio è l’elemento grazie a cui avviene l’unione: esso funge appunto da cerniera o elemento connettivo fra gli altri due. Ciò accade perché il termine medio (animale) da un lato risulta incluso nel termine maggiore (mortale) e dall’altro include in sé il termine minore (uomo). Di conseguenza, la caratteristica espressa dal termine maggiore (la mortalità), appartenendo al termine medio, apparterrò anche al termine minore. Usando un linguaggio simbolico (dove A=mortale, B=animale, C=uomo) Aristotele riassume il sillogismo in questo modo: «Se A inerisce a ogni B, e se B inerisce a ogni C, allora è necessario che A inerisca a C» oppure «Ogni B è A, ogni C è B, ogni C è A».
Le caratteristiche fondamentali del sillogismo aristotelico sono:
a. carattere mediato: nel sillogismo il pensiero non congiunge due concetti direttamente, ma attraverso il termine medio;
b. necessità: nella conclusione bisogna necessariamente predicare in quel modo per non entrare in contraddizione con le premesse. Infatti il termine medio rappresenta nel sillogismo la sostanza, o la causa o la ragione, che solo rende possibile la conclusione: l’uomo è mortale perché, e solo perché, è animale.
In conclusione: la realtà costringe il pensiero che non può negare l’essenza di una cosa.

5.4. IL PROBLEMA DELLE PREMESSE. Gli Analitici primi studiano la struttura del sillogismo in modo puramente formale, cioè badando esclusivamente alla coerenza interna dei suoi passaggi. Aristotele è consapevole del fatto che la validità di un sillogismo non si identifica con la sua “verità”, in quanto un sillogismo, pur essendo logicamente corretto, può partire da premesse false e quindi condurre a conclusioni false. Negli Analitici secondi, invece, Aristotele si sofferma sul sillogismo, oltre che corretto, anche valido, ossia sul cosiddetto sillogismo scientifico o dimostrativo che, partendo da premesse vere, giunge necessariamente ad una conclusione vera.
Ma come si ottengono le premesse del sillogismo scientifico?
Le premesse sono definizioni le quali illustrano l’essenza di una cosa (concetto, esempio: uomo) mediante il genere prossimo (animale) e la differenza specifica, ovvero ciò che distingue una specie dall’altra (razionalità, la caratteristica che identifica l’uomo in rapporto alle altre specie animali).
Ma come si ottengono le definizioni?
Aristotele afferma che il sillogismo è un processo deduttivo che, da verità universali ricava verità particolari.
Come si ricavano le verità universali?
Le verità universali, espresse nelle premesse del sillogismo scientifico, si ricavano con due procedimenti complementari che procedono in modo opposto al sillogismo: l’induzione e l’intuizione.
L’induzione è «la via che dagli oggetti singoli porta all’universale», cioè, è quel procedimento grazie a cui dal particolare si ricava l’universale. L’induzione però non riesce ad attingere il vero universale, ma soltanto il cosiddetto «universale per lo più», ossia un tipo di universale di cui non si può mai essere completamente sicuri. Secondo Aristotele l’induzione risulta priva di autentico valore necessario o dimostrativo e il suo ambito di validità rimane quello della serie dei casi in cui sono state effettivamente riscontrate determinate caratteristiche.
L’intuizione, al contrario della deduzione e dell’induzione, non è un procedimento ma coglie immediatamente:
- i principi generali del ragionamento: il principio di non-contraddizione, il principio d’identità (secondo cui ogni cosa è uguale a se stessa: A=A) e il principio del terzo escluso (secondo cui tra due opposti contradditori non c’è una via di mezzo: A è B o non-B)
- l’essenza delle cose, cioè l’intuizione valuta la verità a cui è giunta l’induzione, dicendo se la caratteristica riscontrata nei casi osservati è occidentale o essenziale.

 

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