Platone

 

1. IL PLATONISMO COME RISPOSTA FILOSOFICA A UNA SOCIETÀ E A UNA CULTURA IN CRISI
Platone visse in un periodo caratterizzato dal tramonto dell’età d’oro della Grecia periclea. In particolare Atene viveva un periodo di crisi sia sul piano politico che su quello culturale.
La crisi politica fu dovuta ad alcuni eventi:
• nel 404 a.C. Atene venne sconfitta da Sparta nella guerra del Peloponneso;
• nel 404-403 a.C. ad Atene si instaurò il governo dei Trenta Tiranni;
• nel 403 a.C. venne restaurata la democrazia che processò, nel 399 a.C., il filosofo Socrate.
La crisi culturale fu dovuta all’esasperazione della sofistica e alla dispersione della dottrina socratica nelle scuole socratiche minori (cinica, cirenaica e megarica).
Platone, discepolo di Socrate, interpreta la crisi di Atene come CRISI DELL’UOMO, per superare la quale c’è bisogno di rifarsi all’insegnamento di Socrate, che ha sentito la necessità di un rinnovamento etico da ottenersi tramite l’esercizio della virtù, intesa come sapere razionale, ed ha manifestato il bisogno di andare oltre il relativismo dei sofisti, avviando una ricerca volta a costruire un sapere fatto di verità assolute, su cui tutti potessero essere d’accordo. In altre parole, Platone si convince della necessità di un rinnovamento globale dell’esistenza umana fondato su una nuova visione della realtà ovvero su una nuova filosofia fatta di verità definitive capaci di dar certezze all’uomo.
 

2. VITA E OPERE
Platone nacque ad Atene da famiglia aristocratica nel 428 a.C. e morì nel 347, a 81 anni. A vent’anni cominciò a frequentare Socrate e fu tra i suoi discepoli sino alla morte del maestro. La morte di Socrate segna per Platone l’orientamento decisivo della sua vita. Secondo quello che egli stesso dice nella Lettera VII, Platone avrebbe voluto dedicarsi alla vita politica. La morte di Socrate lo colpì come un’ingiustizia imperdonabile e una condanna totale di tutta la politica del tempo. Egli si rese conto che le condizioni della vita associata avrebbero dovuto essere radicalmente cambiate e che questo doveva essere il compito della filosofia. Da allora, la filosofia gli apparve come la sola via che potesse condurre l’uomo singolo e la comunità verso la giustizia.
Platone è il primo filosofo dell’antichità di cui ci siano rimaste tutte le opere. Abbiamo di lui un’Apologia di Socrate, 34 dialoghi e 13 lettere. La scelta del dialogo non è casuale, infatti con esso Platone si mantiene vicino all’insegnamento del maestro. Inoltre il dialogo è utile per esprimere alcuni concetti:
• la filosofia è un sapere aperto, cioè rimette in discussione le proprie conclusioni, quindi non mette mai fine alla sua ricerca;
• il dialogo riproduce l’andamento della ricerca, che è lento e faticoso;
• la ricerca è un prodotto sociale, cioè il filosofo è il frutto solidale di chi si interessa alla ricerca.
Accanto alla forma dialogica, una delle caratteristiche dell’opera di Platone è l’uso del mito, ossia di un racconto fantastico attraverso cui vengono esposti concetti e dottrine filosofiche. In Platone il mito riveste due significati fondamentali:
1. il mito è uno strumento di cui si serve il filosofo per facilitare la comprensione delle sue dottrine;
2. il mito è un mezzo di cui si serve il filosofo per poter parlare di realtà che vanno oltre le possibilità della ragione. In altre parole, la filosofia si trova spesso ai confini del pensabile, cioè dinanzi a «sentieri interrotti» che la costringono a tornare indietro oppure a procedere per un’altra via, che Platone individua nel mito.
Il mito è qualcosa che si inserisce nelle lacune della ricerca filosofica, permettendole di formulare una teoria verosimile che, pur essendo indimostrata e indimostrabile, si può ragionevolmente ritenere vera.
 

3. LA DIFESA DI SOCRATE E LA POLEMICA CONTRO I SOFISTI
Nella prima fase della sua attività filosofica, Platone si dedicò a:
• illustrare e difendere l’insegnamento di Socrate;
• fare polemica contro i sofisti.

Nell’Apologia Platone ci presenta Socrate come un uomo che ha consacrato la propria vita alla ricerca filosofica. Si può dire che l’intero significato dello scritto è nella frase: «Una vita senza ricerca non è degna di essere vissuta dall’uomo». Nel Critone ci presenta Socrate di fronte al dilemma: o accettare la morte o fuggire dal carcere. Socrate accetta la morte per rimanere fedele al suo insegnamento: una legge ingiusta va contrastata ma non violata.
Un numeroso gruppo di dialoghi illustra invece i capisaldi dell’insegnamento socratico, che per Platone sono fondamentalmente tre:
1. la virtù è una sola e si identifica con la scienza;
2. la virtù è insegnabile;
3. nella virtù risiede la felicità.
Queste tesi sono esplicitamente presentate e difese nei dialoghi più maturi e ricchi di questa fase del pensiero platonico. Nel Protagora Platone ribadisce la tesi dell’insegnabilità della virtù. Nell’Eutidemo, invece, il filosofo critica il metodo eristico dei sofisti. L’eristica è l’arte di battagliare a parole e di «confutare tutto quello che via via si dice, falso o vero che sia». Il dialogo poi, da critica del metodo eristico dei sofisti, si trasforma in esortazione alla filosofia. Per Platone il compito proprio della filosofia non è solo costruire il sapere, ma è costruire il sapere a vantaggio dell’uomo. Infine, nel Gorgia, Platone attacca l’arte che era la principale creazione dei sofisti e la base del loro insegnamento, la retorica, ovvero l’arte di persuadere circa la bontà della tesi a prescindere dalla validità delle tesi stesse.
 

4. LA DOTTRINA DELLE IDEE
Come sappiamo, in un primo periodo della sua attività filosofica, Platone illustra e difende la dottrina di Socrate e polemizza contro i sofisti. Proprio nell’ambito di questa battaglia antisofistica, Platone elabora il suo pensiero originale, che dà avvio alla seconda fase della sua filosofia: la dottrina delle idee. Però bisogna precisare che nei Dialoghi non c’è alcuna trattazione organica di questa dottrina, per questo gli studiosi hanno dovuto ricavarla e ricostruirla dalle diverse indicazioni di molti dialoghi.
Platone genera la sua dottrina riflettendo sulla scienza. In antitesi ai sofisti, ma procedendo oltre lo stesso Socrate, Platone afferma che la scienza è un sapere immutabile quindi perfetto. Ciò andava contro la sofistica che affermava il relativismo, una dottrina secondo la quale il vero e il falso sono relativi al soggetto. La posizione gnoseologica del soggetto è quella del realismo, il quale afferma che il sapere è sempre sapere di qualcosa, cioè esiste sempre una realtà ed esiste sempre il pensiero che riflette quella realtà. Allora Platone si chiede quale sia l’oggetto della scienza.
Sicuramente, non possono costituire oggetto della scienza le cose del mondo, apprese dai sensi, che sono mutevoli e imperfette, e quindi dominio di quella forma di conoscenza mutevole e imperfetta che Platone chiama opinione (doxa). L’oggetto della scienza è l’idea. Per noi l’idea è una rappresentazione o un pensiero del nostro intelletto. Per Platone l’idea è un’entità immutabile e perfetta (detta ousìa = che è). Quindi le idee sono realtà che costituiscono un altro mondo, una zona d’essere diversa dalla nostra, chiamata iperuranio (che in greco significa “al di là del cielo”). Anche se le cose e le idee hanno caratteristiche strutturali diverse, tra loro esiste un legame: le idee sono i modelli, le cose sono copie o imitazioni imperfette delle idee. Ad esempio, nel nostro mondo esiste una pluralità di cose più o meno belle o giuste, ma nel mondo delle idee esistono la Bellezza e la Giustizia. L’idea platonica è dunque il modello unico e perfetto delle cose molteplici e imperfette di questo mondo. Allora possiamo dire che per Platone esistono due gradi fondamentali di conoscenza, che sono l’opinione e la scienza, cui fanno riscontro due tipi d’essere distinti, le cose e le idee. Quindi in Platone troviamo un dualismo ontologico e un dualismo gnoseologico.

 

La dottrina di Platone è il secondo tentativo di sintesi fra eraclitismo ed eleatismo dopo quello dei fisici pluralisti. Da Eraclito Platone accetta la teoria che afferma il continuo divenire, cioè il mondo che noi osserviamo è mutevole. Da Parmenide invece, Platone apprende alcuni concetti:
1. analogamente all’essere parmenideo, l’idea di Platone è immutabile, eterna e perfetta anche se, diversamente da esso, l’Essere platonico è multiplo, in quanto formato da una pluralità di idee;
2. dualismo gnoseologico tra opinione e scienza;
3. dualismo ontologico fra le cose e l’Essere.
Tuttavia per Parmenide non c’è alcun legame tra l’Essere vero e l’Essere apparente ed inoltre per l’eleatismo il nostro mondo è apparenza illusoria, mentre per Platone esso possiede una sua realtà, anche se imperfetta.

4.1. QUALI SONO LE IDEE. Il pensiero platonico è diviso in due fasi: la fase della maturità e la fase della vecchiaia. Nella fase della maturità, Platone ritiene che nell’iperuranio ci siano due tipi fondamentali di idee:
• le idee-valori, corrispondenti ai supremi principi etici, estetici e politici (ad esempio il Bene, la Bellezza e la Giustizia);
• le idee-matematiche, corrispondenti ai principi fondamentali dell’aritmetica e della geometria. Infatti, secondo Platone, i principi alla base del ragionamento matematico (ad esempio l’uguaglianza, le classi dei numeri, il quadrato, il circolo ecc.) sono idee poiché nella realtà non troviamo mai l’uguaglianza perfetta o il quadrato perfetto di cui parla il matematico, ma solo copie approssimative e imperfette di essi.
Oltre a questi due tipi di idee, Platone parla di idee di cose naturali (ad esempio, l’umanità) e di cose artificiali (ad esempio, il letto). Tuttavia, Platone è rimasto a lungo incerto su questo genere di idee.
Nella fase della vecchiaia, Platone elabora una nuova dottrina: la dottrina logico-ontologica, propensa a far corrispondere a ogni realtà la sua specifica forma. Quindi Platone vuole creare un legame tra il pensiero e le idee ed afferma che nell’iperuranio ci sono tante idee quante sono nella mente le classi di cose a cui diamo lo stesso nome. Ad ogni classe corrisponde un’idea nel mondo delle idee. Ne deduciamo che nell’iperuranio le idee sono molteplici, ma non sono disorganizzate. Infatti le idee hanno un ordine gerarchico-piramidale, con le idee-valori in cima e l’idea del Bene al vertice. L’idea del Bene è definita idea delle idee: come le cose imitano le idee, così le idee imitano l’idea di Bene, che trasmette loro la perfezione.

4.2. RAPPORTI IDEE-COSE. Platone da un lato afferma la distinzione idee-cose, dall’altro lato egli ne sostiene uno stretto legame. Le idee infatti sono:
criteri di giudizio delle cose, in quanto noi uomini per giudicare, cioè per esprimere giudizi sulle cose, non possiamo fare a meno di riferirci alle idee. Se non possedessimo le idee, non potremmo esprimere giudizi, quindi non potremmo conoscere e pensare le cose. Di conseguenza le idee sono la condizione di pensabilità delle cose.
causa delle cose, poiché le cose sono in quanto imitano o partecipano, sia pure imperfettamente, delle idee. Se non ci fossero le idee, le cose non esisterebbero. Quindi le idee sono la condizione dell’esistenza delle cose.
Il rapporto idee-cose viene sintetizzato dal Platone della maturità con tre parole:
- mimesi: le cose imitano le idee;
- metessi: le cose partecipano delle idee;
- parusia: la presenza attiva delle idee nelle cose.
Nella vecchiaia Platone continuerà a trattare questo argomento del rapporto idee-cose, senza tuttavia pervenire a un esito definitivo.

4.3. COME E DOVE ESISTONO LE IDEE. Parlando del mondo delle idee, Platone intendeva sicuramente dire che le idee sono trascendenti, in quanto esistono oltre la mente e oltre le cose. Allora i critici si sono chiesti se questo “oltre” alludesse a un mondo dell’aldilà. La tradizione ha assimilato l’ipururanio al paradiso cristiano. Invece nel Novecento alcuni studiosi neo-kantiani hanno considerato le idee platoniche come schemi mentali di cui si serve la mente per classificare gli oggetti di esperienza. Questa interpretazione non è stata accolta poiché le idee di Platone non sono pensieri o modalità del pensiero, ma sono vere e proprie realtà che si trovano in un mondo al di fuori del nostro. Oggi parecchi studiosi affermano che il mondo platonico delle idee è un ordine eterno di forme e valori ideali, che, come tali, non esistono in alcun luogo o “empireo” e che sono sempre presenti alla mente umana.

4.4. LA CONOSCENZA DELLE IDEE. Per Platone le idee sono «l’oggetto di una visione intellettuale», ossia il risultato di uno sguardo della mente.
Ma come possiamo noi uomini immersi nel mondo delle cose conoscere le idee?
Per risolvere tale problema, Platone ricorre alla dottrina-mito della reminescenza (anamnesi), che si basa sulla credenza orfico-pitagorica della metempsicosi o trasmigrazione delle anime. Platone afferma così che la nostra anima, prima di calarsi nel presente corpo, è vissuta, disincarnata, nel mondo delle idee, dove ha potuto contemplare gli esemplari perfetti delle cose. Una volta discesa nel nostro mondo, l’anima conserva un ricordo sopito delle idee che ha visto nell’iperuranio. Grazie all’esperienza delle cose, l’anima ricorda ciò che ha visto. Per questo Platone dice che conoscere è ricordare, in quanto le idee, sia pur sfocate, le portiamo dentro di noi e basta uno sforzo per tirarle fuori. Platone ha offerto una prova della sua teoria nel Menone, in cui uno schiavo, completamente ignorante in geometria, interrogato opportunamente da Socrate, riesce a dimostrare il teorema di Pitagora. Quindi lo schiavo era già in possesso delle idee necessarie per dimostrare il teorema, doveva sono cercare un modo per farle “uscire”.
Questo tipo di gnoseologia è una forma di innatismo, dottrina della conoscenza secondo la quale i criteri di conoscenza non derivano dall’esperienza ma sono presenti nell’uomo sin dalla nascita. Opposto all’innatismo è l’empirismo, secondo il quale i criteri di conoscenza derivano dall’esperienza.
La gnoseologia di Platone rappresenta il compimento e nello stesso tempo lo stravolgimento della maieutica socratica: ne rappresenta il compimento poiché Platone, proprio come Socrate, è dell’opinione che la verità è dentro di noi; invece, ne rappresenta lo stravolgimento in quanto Socrate affermava che la verità è frutto della ricerca ed è quindi soggetta a cambiamenti (verità relativa), invece per Platone la verità è frutto di una precedente contemplazione delle idee, che sono eterne, immutabili e perfette (assolutismo gnoseologico).

4.5. L’IMMORTALITÀ DELL’ANIMA. Platone, affermando che la conoscenza è ricordo, sostiene l’immortalità dell’anima. Nel dialogo Fedone elenca altre prove che affermano che l’anima sia immortale. Una prima prova, detta dei contrari, afferma che come in natura ogni cosa si genera dal suo contrario, così la morte si genera dalla vita e la vita si genera dalla morte, nel senso che l’anima rivive dopo la morte del corpo. Una seconda, detta della somiglianza, sostiene che l’anima, essendo simile alle idee, che sono eterne, sarà anch’essa tale. Una terza prova e più importante, detta della vitalità, argomenta che l’anima, in quanto soffio vitale, è vita e partecipa all’idea di vita e quindi non può partecipare all’idea opposta di morte.
Sempre nel Fedone, troviamo la nota dottrina platonica della filosofia come “preparazione alla morte”. Infatti per Platone, fare filosofia significa conoscere le idee, vale a dire ricordare le idee: questo è un lavoro razionale che non ha bisogno dei sensi, ma segue esclusivamente la ragione. Ogni uomo così, già in questo mondo, si stacca dal corpo e si prepara alla morte, cioè al ricongiungimento con le idee.
La teoria dell’immortalità dell’anima serve anche per chiarire il problema del destino. Platone ritiene infatti che la nostra sorte attuale dipenda da una scelta precedentemente compiuta nel mondo delle idee. Questa tesi viene illustrata con il mito di Er. Er, morto in battaglia e risuscitato dopo dodici giorni, ha potuto raccontare agli uomini la sorte che li attende dopo la morte. La parte centrale del suo racconto è quella che riguarda la scelta del destino alla quale le anime sono invitate nel momento della loro reincarnazione. La parca Làchesi, che bandisce la scelta, afferma che ognuno è responsabile del proprio destino: la divinità non ne è responsabile. Quindi ogni anima sceglie il modello di vita che incarnerà prossimamente. La scelta è guidata il più delle volte dalle esperienze che l’anima ha raccolto nella sua vita anteriore.

4.6. LA DOTTRINA DELL’AMORE E DELL’ANIMA. Secondo Platone, il sapere crea tra l’uomo e le idee, e tra gli uomini impegnati nella ricerca razionale, un legame, che non è puramente intellettuale, ma implica anche amore. Alla teoria dell’amore sono dedicati due dialoghi, il Simposio e il Fedro. Nel Simposio diversi personaggi si interrogano sulla natura dell’amore. Aristofane, col mito degli esseri primitivi composti d’uomo e donna (androgini), divisi dagli dei per punizione in due metà di cui l’una va in cerca dell’altra per unirlesi e ricostruire l’essere primitivo, esprime uno sei caratteri fondamentali dell’amore: l’insufficienza, il sentirsi insufficienti e il desiderio di colmare questo vuoto. Basandosi su ciò che ha detto Aristofane, Socrate, altro personaggio del dialogo, afferma che l’amore desidera qualche cosa che non ha, ma di cui ha bisogno, ed è quindi mancanza. Il mito infatti dice Amore figlio di Povertà (Penìa) e di Acquisto (Poros), come tale esso non è un dio, ma un dèmone; perciò non ha la bellezza ma la desidera, non ha la sapienza ma aspira a possederla ed  è quindi filosofo. L’amore dunque è desiderio di bellezza, e la bellezza si desidera perché è il bene che rende felici. Ma la bellezza ha gradi diversi a cui l’uomo può sollevarsi solo successivamente attraverso un lento cammino:
In primo luogo, è la bellezza di un bel corpo quella cha attrae e avvince l’uomo.
Poi egli si accorge che la bellezza è uguale in tutti i corpi e così passa ad amare tutta la bellezza corporea.
Ma al di sopra di essa c’è la bellezza dell’anima.
E al di sopra ancora, la bellezza delle leggi e delle istituzioni.
E poi la bellezza delle scienze.
Infine, al di sopra di tutto, la bellezza in sé, che è eterna, superiore al divenire e alla morte, perfetta, sempre uguale a se stessa, fonte di ogni altra bellezza e oggetto della filosofia.

4.7. IL FEDRO. Come può l’anima umana elevarsi dai gradi inferiori per giungere a quelli superiori fino ad arrivare alla bellezza suprema? Platone risponde a questa domanda nel Fedro e afferma che non tutti si elevano, poiché ciò dipende dalla natura dell’anima. Quest’ultima, spiega Platone, è simile a una coppia di cavalli alati, guidati da un auriga: uno dei cavalli, quello bianco, è eccellente; l’altro, quello nero, è pessimo. L’auriga cerca di indirizzare i cavalli verso l’iperuranio, però il cavallo nero tira verso il basso e rappresenta quella parte di noi che tende a legarsi alle cose materiali. Per cui ogni individuo resta nell’iperuranio per un periodo di tempo più o meno lungo a seconda della forza del cavallo nero. L’anima, che ha contemplato per più tempo le idee nell’iperuranio, si incarna nel corpo di un uomo dedito all’amore e alla sapienza. Mentre l’anima che ha contemplato per meno tempo le idee dell’iperuranio, si incarna nel corpo di un uomo meno dedito all’amore alla sapienza. Comunque nelle anime cadute ed incarnate il ricordo delle idee è risvegliato proprio dalla bellezza. Essa fa quindi da mediatrice tra l’uomo e il mondo delle idee.
 

5. LA TEORIA DELLO STATO
Nel dialogo Repubblica, considerato la massima opera di Platone, il filosofo spiega come dovrebbe essere lo stato ideale: esso deve essere governato dai filosofi, in quanto essi conoscono il bene. Nel dialogo possiamo infatti leggere:


Se i filosofi non governano le città o se quelli che ora chiamiamo re o governanti non coltiveranno davvero e seriamente la filosofia, se il potere politico e la filosofia non coincideranno nelle stesse persone e se la moltitudine di quelli che ora si applicano esclusivamente all’una o all’altra non sarà col massimo rigore impedita dal farlo, è impossibile che cessino i mali della città e anche quelli del genere umano.


La costituzione di una comunità politica governata da filosofi presenta a Platone alcuni problemi fondamentali:
•   Qual è lo scopo e il fondamento di tale comunità? Cosa realizza lo stato ideale?
A questo primo problema Platone risponde: la giustizia. Difatti nessuna comunità umana può sussistere senza, neanche una banda di briganti o di ladri potrebbe venire a capo di nulla se i suoi componenti violassero le norme della giustizia l’uno a danno degli altri.
•   Ma cos’è la giustizia?
Platone spiega che lo Stato deve essere costituito da tre classi: quella dei governanti, quella dei guerrieri e quella dei cittadini, che esercitano un'altra qualsiasi attività (agricoltura, artigianato, commercio ecc.). Ad ogni classe corrisponde una virtù: la saggezza appartiene alla prima classe, il coraggio appartiene alla seconda e la temperanza è virtù comune a tutte le classi. La giustizia consiste in queste tre virtù e si realizza quando ciascun cittadino, a seconda della classe a cui appartiene, svolge il proprio compito in modo virtuoso. Quando si realizza la giustizia, lo Stato è unito e forte. Come nello Stato, l’anima individuale è divisa in tre parti: la parte razionale, che è quella per cui l’anima ragiona e domina gli impulsi; la parte concupiscibile, che è il principio di tutti gli impulsi corporei, e la parte irascibile, che è l’ausiliario del principio razionale e fa in modo che si segua tenacemente la ragione. Alla parte razionale appartiene la saggezza, a quella irascibile il coraggio, mentre l’accordo di tutte e tre le parti nel lasciare il comando all’anima razionale sarà la temperanza. Anche nell’uomo singolo la giustizia si avrà quando ogni parte dell’anima adempierà alla propria funzione.
•   Perché è necessario dividere gli individui in classi?
Il filosofo risponde dicendo che lo Stato deve necessariamente essere diviso in classi poiché in uno Stato vi sono compiti diversi che devono essere esercitati da individui diversi.
•   Con quale criterio gli individui sono distribuiti nelle classi?
Per Platone la divisione degli individui in classi non dipende dalla nascita o dalla ricchezza, ma dipende dall’inclinazione naturale che ogni individuo manifesta. Ci sono individui prevalentemente razionali, portati quindi alla sapienza e al governo; individui prevalentemente impulsivi, portati a essere guerrieri, e individui prevalentemente soggetti al corpo e ai suoi desideri, portati al lavoro manuale.
Tutto ciò trova un’esemplificazione nel mito fenicio delle stirpi, secondo cui alcuni nascono con una natura aurea, altri con una natura argentea, altri con una natura ferrea o bronzea.
•   A chi spetta il compito di decidere se un individuo appartiene ad una natura o ad un’altra?
Ai filosofi, ovvero ai governanti o magistrati, che osservano i bambini, vedono le loro inclinazioni e li assegnano alle varie classi. Nella comunità platonica è presente quindi una mobilità sociale. Nella Repubblica, infatti, si dice esplicitamente che un bimbo ferreo nato tra gli uomini aurei dovrà essere retrocesso alla classe e, viceversa, un bambino aureo nato tra uomini ferrei dovrà essere innalzato tra gli uomini aurei e accolto tra i custodi. Tuttavia, Platone ha limitato questo concetto affermando che solitamente i figlio somigliano ai padri e quindi rimangono nella classe di provenienza.

5.1. IL “COMINISMO” PLATONICO. Affinché lo Stato funzioni bene e la giustizia sia realizzata, Platone suggerisce l’eliminazione della proprietà privata e la comunanza dei beni per le classi superiori, affinché essi, al di là dei propri interessi, si dedichino più efficacemente alla gestione della cosa pubblica. Tuttavia questo tipo di società non implica un’organizzazione comunistica, in quanto la terza classe non viene esclusa dalla proprietà privata dei mezzi di produzione. Inoltre, la classe al potere non avrà famiglia: Platone ritiene che i governanti debbano avere in comune anche le donne. Tutti i bambini poi saranno tolti fin dalla nascita ai loro genitori, e si avrà cura che i genitori non sappiano quali sono i loro figli, e i bambini ignorino quali siano i loro genitori. In questo modo si vivrà come in una grande e solidale famiglia.
A questo punto ci si può chiedere: ma i guardiani sono felici? Platone risponde che la felicità risiede nella giustizia, ossia nell’adempimento convinto del proprio compito. Inoltre non bisogna dimenticare che i guardiani sono filosofi ed, essendo tali, sono di per sé felici in quanto amano la conoscenza e non hanno bisogno di cercare la propria realizzazione in quei beni materiali che costituiscono oggetto di desiderio da parte dei ferrei.

5.2. LE DEGENERAZIONI DELLO STATO. Lo Stato ideato da Platone è un esempio di utopia (dal greco ou, non e topos, luogo) poiché si configura come una sorta di esperimento mentale tramite cui il filosofo perviene a delineare l’idea o il modello teorico di una “società bella” che pur essendo inesistente risulta in grado di fungere da termine di confronto o meta ideale nei confronti delle società concrete. Quindi lo Stato di Platone rappresenta il modello ideale sulla cui base migliorare gli stati esistenti e giudicarne le possibili alterazioni. Varie sono le degenerazioni dello stato e le corrispondenti degenerazioni del singolo:
Timocrazia: governo fondato sull’onore, che nasce quando i governanti si appropriano di terre e case; a esso corrisponde l’uomo timocratico, ambizioso e amante del comando e degli onori, ma diffidente verso i sapienti.
Oligarchia: governo fondato sul censo, in cui comandano i ricchi; a esso corrisponde l’uomo avido di ricchezze, parsimonioso e laborioso.
Democrazia: governo in cui tutti i cittadini sono liberi e ad ognuno è lecito fare ciò che vuole; a esso corrisponde l’uomo democratico che tende ad abbandonarsi a desideri smodati.
Tirannide: la più bassa di tutte le forme di governo, che nasce dall’eccessiva libertà della democrazia. È la forma più sgradevole perché il tiranno, per guardarsi dall’odio dei cittadini, deve circondarsi degli individui peggiori. L’uomo tirannico è schiavo delle proprie passioni alle quali si abbandona disordinatamente.

5.3. PLATONE E LA DEMOCRAZIA. La politica di Platone prende le mosse da una sostanziale ostilità nei confronti della democrazia. Tant’è che Platone critica non soltanto i sofisti ma anche gli uomini politici che avevano attuato riforme della città in senso democratico: Temistocle, Cimone, Aristide e Pericle. Lo Stato di Platone segue una concezione aristocratica, secondo la quale a reggere le sorti della cosa pubblica devono essere i «migliori», ossia una minoranza che eccelle sui «molti» non per natali e ricchezza, ma per virtù e valore personale. Questa particolare forma di aristocrazia difesa da Platone è detta sofocrazia (governo dei sapienti) o noocrazia (governo dell’intelligenza).
Poiché lo Stato di cui parla Platone non prevede istituzioni di tipo democratico-assembleare ed esclude la possibilità di un controllo popolare dell’opera dei governanti, sorge spontanea la domanda: come si può essere sicuri che i governanti realizzeranno davvero il bene comune della città e non il loro personale tornaconto?
Platone risponde affermando che i custodi, prima di saper custodire gli altri, sono in grado di custodire se medesimi. Da ciò l’importanza che riveste in Platone il sistema educativo. Nella Repubblica, infatti, ordinamento educativo e ordinamento politico risultano strettamente congiunti, al punto che lo Stato tende a configurarsi come una sorta di Accademia, avente come scopo la formazione permanente di ineccepibili custodi. In altri termini, Platone è persuaso che individui addestrati sin dalla nascita a pensare al bene collettivo, saranno sempre all’altezza, una volta divenuti reggitori, di agire per il bene supremo dello Stato. E ciò conformemente alla loro natura aurea, che li predispone, fin dall’inizio, a tenere a bada, in nome della ragione, gli interessi egoistici e passionali. L’educazione al saper e alla virtù non riguarda tutti gli individui, ma solo quelli delle due prime classi. Tant’è vero che dell’educazione della classe lavoratrice Platone non fa alcun cenno, anzi, egli è convinto che il sapere sia una prerogativa delle classi superiori.

5.4. I GRADI DELLA CONOSCENZA E L’EDUCAZIONE. Platone spiega quali siano le tappe e i gradi della conoscenza partendo da un principio, secondo il quale la conoscenza è proporzionale all’essere. Perciò all’essere, e quindi alle idee, corrisponde la scienza, che è la conoscenza vera; al non-essere corrisponde l’ignoranza e al divenire, che sta tra l’essere e il non-essere, corrisponde l’opinione, che è a metà strada tra la conoscenza e l’ignoranza. In particolare, Platone distingue due gradi nell’opinione e due gradi nella scienza.
L’opinione (doxa) o conoscenza sensibile comprende:
• la congettura o immaginazione che ha per oggetto le ombre o le immagini degli oggetti (ovvero le impressioni superficiali e slegate delle cose);
• la credenza che ha come oggetto le cose sensibili nei loro rapporti scambievoli (ovvero la percezione chiara degli oggetti).
La scienza (epistéme) o conoscenza razionale comprende:
• la ragione matematica o discorsiva (diánoia) che ha per oggetto le idee-matematiche;
• l’intelligenza filosofica o noetica (nóesis) che ha per oggetto le idee-valori.
Gli uomini comuni si fermano all’opinione, i matematici si elevano alla ragione matematica mentre i filosofi si elevano all’intelligenza filosofica.

5.5. IL MITO DELLA CAVERNA. La metafisica e la gnoseologia di Platone trovano un’esemplificazione allegorica nel racconto della caverna, che rappresenta uno dei miti più noti della Repubblica e del platonismo in generale.

Immaginiamo vi siamo schiavi incatenati in una caverna sotterranea e costretti a guardare solo davanti a sé. Sul fondo della caverna si riflettono immagini di statuette, che sporgono al di sopra di un muricciolo alle spalle dei prigionieri e raffigurano tutti i generi di cose. Dietro il muro si muovono, senza essere visti, i portatori delle statuette, e più in là brilla un fuoco che rende possibile il proiettarsi delle immagini sul fondo. I prigionieri scambiano quelle ombre per la sola realtà esistente. Ma se uno di essi riuscisse a liberarsi dalle catene, voltandosi si accorgerebbe delle statuette e capirebbe che esse, e non le ombre, sono la realtà. Se egli riuscisse in seguito a risalire all’apertura della caverna scoprirebbe, con ulteriore stupore, che la vera realtà  non sono nemmeno le statuette, poiché queste ultime sono a loro volta imitazione di cose reali, nutrite e rese visibili dall’astro solare.
Dapprima, abbagliato da tanta luce, non riuscirà a distinguere bene gli oggetti e cercherà di guardarli riflessi nelle acque. Solo in un secondo tempo li scruterà direttamente. Ma, ancora incapace di volgere gli occhi verso il sole, guarderà le costellazioni e il firmamento durante la notte. Dopo un po’ sarà finalmente in grado di fissare il sole di giorno e di ammirare lo spettacolo scintillante delle cose reali. Ovviamente, lo schiavo vorrebbe rimanersene sempre là, a godere, rapito, di quel mondo di superiore bellezza, tanto che «preferirebbe soffrire tutto piuttosto che tornare alla vita precedente». Ma se egli, per far partecipi i suoi antichi compagni di schiavitù di ciò che ha visto, tornasse nella caverna, i suoi occhi sarebbero offuscati dall’oscurità e non saprebbero più discernere le ombre: perciò sarebbe deriso e spregiato dai compagni che, accusandolo di avere gli occhi “guasti”, continuerebbero ad attribuire i massimi onori a coloro che sanno più acutamente vedere le ombre della caverna. E alla fine, infastiditi dal suo tentativo di scioglierli e di portarli fuori della caverna, lo ucciderebbero.

 

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5.6. IL SIGNIFICATO DEL MITO. La simbologia filosofica di questo mito è ricchissima:
• la caverna oscura = mondo delle cose
• gli schiavi incatenati = gli uomini
• le catene = l’ignoranza e le passioni ch ci inchiodano a questa vita
• le ombre delle statuette = l’immagine superficiale delle cose, corrispondente al primo grado dell’opinione
• le statuette = le cose del mondo sensibile corrispondenti al secondo grado dell’opinione
• il fuoco = il principio fisico con cui i primi filosofi spiegarono le cose
• la liberazione dello schiavo = l’azione della conoscenza e della filosofia
• il mondo fuori della caverna = mondo delle idee
• le immagini delle cose riflesse nell’acqua = primo grado della scienza (ragione matematica), sono quindi le idee matematiche che preparano alla filosofia
• gli oggetti al di fuori della caverna osservati direttamente = secondo grado della scienza (intelligenza filosofica)
• il sole = l’idea di bene che tutto rende possibile e conoscibile
• la contemplazione assorta delle cose e del sole = la filosofia ai suoi massimi livelli
• lo schiavo che vorrebbe starsene «sempre là» = la tentazione del filosofo di chiudersi in una torre d’avorio
• lo schiavo che ritorna alla caverna = il dovere del filosofo di far partecipe gli altri delle proprie conoscenze
• l’ex schiavo che non riesce più a vedere le ombre = il filosofo che per essersi troppo concentrato sulle idee si è disabituato alle cose
• lo schiavo deriso = la sorta dell’uomo di pensiero di venir scambiato per pazzo da coloro che sono attaccati ai pregiudizi e ai modi di vita volgari
• i grandi onori attribuiti a coloro che sanno vedere le ombre = il premio offerto dalla società ai falsi sapienti
• l’uccisione del filosofo = la sorte toccata a Socrate.
Nel mito è presente innanzitutto il dualismo gnoseologico e ontologico sotteso alla teoria delle idee. È presente una visione religiosa che spinge Platone a riguardare il nostro mondo come ad un regno delle tenebre contrapposto al regno della luce rappresentato dalle idee. Ma soprattutto c’è il concetto della finalità politica della filosofia, ossia l’idea di un’utilizzazione di tutte le conoscenze che il filosofo ha potuto acquisire per la fondazione di una comunità giusta e felice. Secondo Platone, infatti, fa parte dell’educazione del filosofo il ritorno alla caverna, che significa, per l’uomo, porre ciò che ha visto a disposizione della comunità, rendersi conto egli stesso di quel mondo che, per quanto inferiore, è il mondo umano, quindi il suo mondo, e obbedire al vincolo di giustizia che lo lega all’umanità nella propria persona e in quella degli altri.
 

6. IL TIMEO
Nel periodo della vecchiaia Platone riaffronta il problema del rapporto idee-cose e cerca di attenuare il rigido dualismo tra il mondo delle idee e il mondo delle cose alla luce di una considerazione più unitaria della realtà. Il frutto di questa riflessione è il Timeo, in cui venne approfondito il problema cosmologico dell’origine e della formazione dell’universo. Platone pone all’origine dell’universo un caos informe o una materia spaziale priva di vita, chiamata chora o Necessità. Sforzandosi a capire meglio il rapporto trai dee e cose, Platone introduce un terzo termine mediatore: il Demiurgo. Esso viene presentato da Platone come un dio artefice, dotato di intelligenza e di volontà, che si trova in una posizione intermedia tra le idee e le cose. Il Demiurgo osserva le idee e plasma le cose a «immagine e somiglianza» delle idee e fa ciò poiché è buono e amante del Bene.
Ma se il Demiurgo opera per amore del Bene, come si spiega la presenza del male nel mondo?
Platone risolve questo problema dicendo che il male non deriva dal Demiurgo, ma da una parte di materia sfuggita all’opera del Demiurgo. Infatti, per il Timeo, tutto ciò che esiste di positivo e di armonico è dovuto al Demiurgo, all’intelligenza e alle idee, mentre tutto ciò che esiste di negativo e di disarmonico è dovuto alla materia e alla necessità. Platone, inoltre, afferma che il Demiurgo ha dato al mondo un corpo perfetto e lo ha dotato di un’anima, che vivifica e ordina la materia, dando forma all’informe e trasformando l’universo in un immenso organismo vivente, in cui si riflette l’armonia delle idee. Per rendere questo mondo ancora più simile al suo modello ideale, che è eterno, il Demiurgo ha generato il tempo che, con il suo succedersi ordinato di giorni, botti, mesi, anni, riflette l’ordine eterno delle idee.
La novità più rilevante del Timeo consiste nell’avvicinamento al pitagorismo. Infatti, la struttura del cosmo formato dal Demiurgo risulta esplicitamente di tipo matematico: il mondo è matematica, le cose sono numeri. Questa rielaborazione platonica del pitagorismo appare ulteriormente accentuata negli ultimi anni della vita del filosofo. Secondo una testimonianza di Aristotele, sembra infatti che Platone, alla fine dei suoi giorni, abbia fatto suo il dualismo pitagorico, cercando di spiegare tutto mediante due principi: Uno e Diade. Uno è il principio limitante e determinato grazie al quale si passa dal caos all’ordine. La Diade, o Dualità di grande-e-piccolo o Dualità indefinita, è il principio della molteplicità e quindi della caoticità.

 

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