Parte I - Titolo I - Rapporti civili

 

La Costituzione italiana garantisce il rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, ossia di quei diritti basilari dell’essere umano che riguardano tutte le principali estrinsecazioni della sua personalità e dignità.
La nostra Carta si riallaccia idealmente a precedenti documenti costituzionali di primaria e inveterata importanza storica, come il Bill of Rights del 1689 e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, e che hanno successivamente trovato fertile sviluppo con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (adottata dall’Assemblea dell’ONU il 10/12/1948), la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (firmata a Roma il 4/11/1950) e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (firmata a Nizza il 7-12/2000).

Tali diritti che abbracciano sia le libertà individuali che collettive presentano le seguenti peculiarità:

-  in molti casi sono dichiarati inviolabili, nel senso che non possono essere abrogati neppure dal legislatore costituzionale, né tantomeno essere compressi nel loro nucleo essenziale da alcuna fonte normativa;

-  sono riconosciuti non soltanto al singolo, ma anche alle formazioni sociali in cui svolge la sua personalità (famiglia, scuola, partiti, sindacati, comunità religiose, associazioni laiche, ecc.);

-  sono riconosciuti (per la maggior parte) a tutti gli individui, compresi stranieri, apolidi e clandestini, in quanto considerati attributi irrinunciabili ed essenziali della persona umana;

-  la disciplina dei limiti e delle condizioni dell’esercizio di tali diritti è affidata esclusivamente al potere legislativo (riserva di legge), con esclusione pressoché totale del potere regolamentare del Governo se non in via di mera attuazione;

-  in molti casi lo stesso testo costituzionale limita la discrezionalità del legislatore, individuando direttamente i casi e specificando l’oggetto di interessi e valori primari (riserva di legge rinforzata);

-  i provvedimenti di limitazione di tali diritti devono essere motivati e il giudizio sugli stessi essere affidato ad un potere terzo, quello giudiziario, cui spetta anche verificarne i presupposti ed eventualmente annullare provvedimenti contrari adottati temporaneamente ad altra autorità pubblica (es. arresto o fermo di polizia).

Di tali libertà alcune sono riconosciute dal Costituente a «tutti», cioè ai cittadini e ai non cittadini (es. artt. 13, 14, 15, 19, 21), altre soltanto ai cittadini (artt. 16, 17, 18), ma sempre nel rispetto dei diritti umani.

Articolo 13

La libertà personale è inviolabile.
Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione personale, né qualsiasi altra restrizione della libertà personale, se non per atto motivato dell'Autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.
In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, l'autorità di Pubblica sicurezza può adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro quarantotto ore all'Autorità giudiziaria e, se questa non li convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e restano privi di ogni effetto.
È punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà.
La legge stabilisce i limiti massimi della carcerazione preventiva.

 

L’articolo che apre la Parte Prima della Costituzione riguardante i diritti e i doveri dei cittadini è dedicato al cd. writ of habeas corpus, ossia a quel sistema procedurale di origine anglosassone posto a tutela della libertà personale contro coercizioni, restrizioni fisiche e arresti già disciplinato nel XIII secolo in Inghilterra in violazione della lex terrae e senza il giudizio dei pari.
Storicamente, l’origine «giuridica» delle garanzie a tutela della persona risale alla Magna Charta Libertatum del 1215, mentre dal punto di vista teorico è solo con lo sviluppo del giusnaturalismo moderno che i diritti naturali dell’individuo assumono un rilievo fondamentale, indipendentemente dal riconoscimento da parte dello Stato. Il valore della libertà personale trova successivo e dettagliato riconoscimento nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 26 agosto 1789.
La Costituzione italiana recepisce tale principio consacrando l’inviolabilità della persona da ogni forma di costrizione non prevista e disciplinata in ambito costituzionale: sono quindi fissate in dettaglio ipotesi e modalità di limitazione della libertà personale che si concretano nella libertà individuale e garanzia contro gli arresti illegali. L’importanza e la delicatezza della tutela della libertà personale sono assistite da tre specifiche garanzie:
-   riserva di legge: solo il potere legislativo (e non altri) può stabilire i casi e le modalità con cui è possibile limitare le libertà;
-   riserva di giurisdizione: solo il giudice (non l’autorità amministrativa) è legittimato ad emettere (o convalidare) provvedimenti limitativi della libertà;
 motivazione dei provvedimenti: i provvedimenti giurisdizionali devono indicare in modo esauriente i motivi che hanno portato il giudice a privare l’individuo della libertà. Contro le sentenze ed i provvedimenti relativi alla libertà personale pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari e speciali oltre al ricorso in sede di merito al Tribunale del riesame, è sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge.
La disposizione dettagliata e le riserve relative a provvedimenti restrittivi della libertà personale non lasciano spazio alla discrezionalità dell’autorità che li emette per mettere l’individuo al riparo da possibili abusi e arbitrii nei suoi confronti in linea con il principio democratico che permea la nostra Costituzione.
Nell’ottica di una più efficace tutela della libertà personale, l’art. 7 del D.L. 23 febbraio 2009, n. 11, conv. con modif. in L. 23 aprile 2009, n. 38, ha introdotto nel Codice penale l’articolo 612bis che prevede la fattispecie di reato degli atti persecutori (cd. stalking), ovvero punisce chi, in modo reiterato, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.

Articolo 14

Il domicilio è inviolabile.
Non vi si possono eseguire ispezioni o perquisizioni o sequestri, se non nei casi e modi stabiliti dalla legge secondo le garanzie prescritte per la tutela della libertà personale.
Gli accertamenti e le ispezioni per motivi di sanità e di incolumità pubblica o a fini economici e fiscali sono regolati da leggi speciali.


Il diritto dell’uomo di “difendere e proteggere la propria casa” assume un rilievo fondamentale in quanto l’abitazione costituisce l’ambito spaziale, privato e garantito, entro cui l’individuo concentra di solito i rapporti familiari. In questo senso si sostanzia nel diritto dell’individuo a proteggere da intrusioni esterne, pubbliche o private, tutti i luoghi in cui trascorre la propria vita intima. Ciò spiega perché sono attribuite al domicilio le stesse garanzie (riserva di legge, riserva di giurisdizione e motivazione dei provvedimenti) dettate per la libertà personale, anche se – come previsto dall’articolo 14 – sono consentiti atti di accertamento e controllo di natura non coercitiva per fini tassativamente determinati (sanità, incolumità, economici e fiscali). Tali interventi devono essere previsti solo da leggi (o atti equivalenti) e legati da un nesso funzionale con i motivi che li rendono costituzionalmente legittimi.

Articolo 15

La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili.
La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell'Autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge.

 

Le libertà di circolazione e soggiorno attengono al rapporto dell’individuo con lo spazio che lo circonda ed è riconosciuta dal Costituente ai soli cittadini ed è attualmente estesa a tutto il territorio dell’Unione Europea. Per uscire dal territorio nazionale o entrarvi è necessario possedere un valido documento di riconoscimento: il passaporto per la maggior parte dei Paesi, la carta d’identità valida per l’espatrio per alcuni Paesi che hanno firmato un accordo con l’Italia.
Per la circolazione all’interno dell’Area Schengen, relativa principalmente ai paesi dell’Unione Europea non è previsto alcun tipo di formalità.
Gli accordi di Schengen sono stati conclusi il 14 giugno 1985 tra Francia, Germania, Belgio, Olanda e Lussemburgo. Successivamente vi hanno aderito tutti gli Stati membri dell’Unione Europea (ad eccezione del Regno Unito, dell’Irlanda, di Cipro, della Romania e della Bulgaria), nonché l’Islanda, la Norvegia e la Svizzera. I principi fondamentali sanciti dagli accordi prevendono, tra l’altro, che i cittadini degli Stati aderenti possano liberamente attraversare i confini di uno Stato membro senza dover sottostare ad alcun controllo (se non giustificato da motivi di ordine pubblico o sicurezza nazionale).
Nello Statuto Albertino tali libertà non erano menzionate, in quanto rientranti nel concetto più ampio di libertà personale e ritenute strumentali all’esercizio della libertà economica. Le stesse libertà furono successivamente ridimensionate notevolmente dal regime fascista per motivi politici. Nel 1948 tali libertà sono state esplicitamente riconosciute e disciplinate dal Costituente e, per evitare che venissero limitate arbitrariamente, sono state accompagnate da una riserva rinforzata di legge che prevede che eventuali restrizioni possono essere imposte solo in via generale, non in modo discriminatorio con riferimento a singolo individui, e giustificate solo da motivi di sanità (cioè salute pubblica) e sicurezza (esistenza delle condizioni che garantiscono il pacifico esercizio dei diritti di libertà), mai comunque da ragioni politiche (ciò spiega l’abrogazione, con la l. cost. 1/2022, della XIII disposizione transitoria della Costituzione che impediva la presenza dei membri della casa Savoia e loro discendenti maschi sul territorio nazionale).

Articolo 16

Ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza.
Nessuna restrizione può essere determinata da ragioni politiche.
Ogni cittadino è libero di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi, salvo gli obblighi di legge.



Le libertà di circolazione e soggiorno attengono al rapporto dell’individuo con lo spazio che lo circonda e sono riconosciute dal Costituente ai soli cittadini ed è attualmente estesa a tutto il territorio dell’Unione Europea. Per uscire dal territorio nazionale o entrarvi è necessario possedere un valido documento di riconoscimento: il passaporto per la maggior parte dei Paesi, la carta d’identità valida per l’espatrio per alcuni Paesi che hanno firmato un accordo con l’Italia.
Nello Statuto Albertino tali libertà non erano menzionate, in quanto rientranti nel concetto più ampio di libertà personale e ritenute strumentali all’esercizio della libertà economica. Le stesse libertà furono successivamente ridimensionate notevolmente dal regime fascista per motivi politici. Nel 1948 tali libertà sono state esplicitamente riconosciute e disciplinate dal Costituente e, per evitare che venissero limitate arbitrariamente, sono state accompagnate da una riserva rinforzata di legge che prevede che eventuali restrizione possono essere imposte solo in via generale, non in modo discriminatorio con riferimento a singoli individui, e giustificate solo da motivi di sanità (cioè salute pubblica) e sicurezza (esistenza delle condizioni che garantiscono il pacifico esercizio dei diritti di libertà), mai comunque da ragioni politiche (ciò spiega l’abrogazione, con la l. cost. 1/2002, della XIII disposizione transitoria della Costituzione che impediva la presenza dei membri della Casa Savoia e loro discendenti maschi sul territorio nazionale).

Articolo 17

I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz'armi.
Per le riunioni, anche in luogo aperto al pubblico, non è richiesto preavviso.
Delle riunioni in luogo pubblico deve essere dato preavviso alle autorità, che possono vietarle soltanto per comprovati motivi di sicurezza o di incolumità pubblica.



La riunione è definita come un diritto di libertà individuale ad esercizio collettivo; pur essendo, infatti, riconosciuta al singolo, non può essere esercitata individualmente ma solo congiuntamente ad altri soggetti e si ricollega sia all’art. 2 (tutela delle formazioni sociali) sia all’art. 3 (ostacolo all’esercizio di un diritto).
Garantire ai cittadini il diritto di riunirsi costituisce il presupposto indispensabile per consentire il libero e democratico dialogo, lo scambio di opinioni nonché l’esercizio di altre libertà per garantire la partecipazione del singolo alla vita della comunità e alle formazioni sociali.
L’unica condizione richiesta per il libero esercizio del diritto di riunione è che il suo svolgimento avvenga in modo pacifico e senza armi. Il preavviso non costituisce, dunque, requisito di liceità della riunione in luogo pubblico, ma vale come divieto preventivo soltanto per consentire alle forze di polizia di assolvere alle proprie funzioni di vigilanza e ai promotori della manifestazione di ottenere la protezione dell’autorità e la disponibilità della forza pubblica nella data e nel luogo fissati per svolgere la riunione tenendo sotto controllo la situazione ed evitare sul nascere eventuali turbative durante il suo svolgimento.

Articolo 18

I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale.
Sono proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare.



La libertà di associazione è, come la libertà di riunione, una libertà strumentale ad esercizio collettivo, ma se ne differenzia dalla prima per il suo carattere duraturo e la presenza di almeno un nucleo di regole associative degli associati. La Costituzione garantisce la libertà di associazione per perseguire uno scopo collettivo comune poiché la considera indispensabile per favorire lo sviluppo della persona umana, sia come singolo che nell’ambito delle formazioni sociali, per consentire la libera partecipazione dei cittadini alla vita economica, politica e sociale del paese.
La libertà di associazione si specifica in tre diverse libertà di:
-   costituire un’associazione;
-   aderire o non aderire ad un’associazione;
-   recedere da un’associazione.
La Costituzione per rafforzare tale forma di tutela menziona e disciplina successivamente sia l’associazionismo religioso (art. 20) sia l’associazionismo sindacale (art. 39) sia quello politico (art. 49), forme di associazione di primaria importanza per la crescita democratica e sociale del Paese.
Infine, si precisa che la proibizione delle associazioni segrete deriva dal fatto che in un regime democratico che tutela la libertà di associazione la segretezza non ha alcun significato a meno che la stessa non nasconda finalità contrarie alla Costituzione o alla legge.
La proibizione delle associazioni para-militari scaturisce, invece, dalla considerazione che in un regime democratico i fini politici vanno perseguiti attraverso il pacifico e civile scambio di idee senza ricorrere alle armi, alla violenza e a gerarchie di tipo militare, potenziali attività propedeutiche ai «colpi di Stato».
Controversa è la presenza di associazioni obbligatorie in cui l’adesione alle stesse costituisce un presupposto per l’esercizio di determinate attività o professioni come, ad esempio, gli ordini e i collegi professionali, anche se la Corte Costituzionale (sent. 248/97) ha affermato che in tale caso, a tutela degli altri interessi costituzionalmente garantiti, tali associazioni non ledono alcuna sfera di tale libertà.

Articolo 19

Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume.


La libertà religiosa costituisce un diritto azionabile da qualsiasi individuo, cittadino e non, tutelabile nei confronti dei pubblici poteri e nei confronti dei privati, al fine di garantire il pluralismo religioso nel rispetto del principio di laicità dello Stato.
Tale libertà presenta una dimensione positiva, che si concretizza nella libertà di aderire a un determinato credo religioso o anche di cambiare il proprio credo, e una dimensione negativa, che si sostanzia nella libertà di non credere (ateismo).
Sebbene tale libertà attenga alla sfera interiore di ciascun individuo, ’art. 19 distingue tre possibili manifestazioni esterne: la professione, la propaganda e l’esercizio (in privato e in pubblico) del culto, che la Carta costituzionale ha provveduto a tutelare ponendo il solo limite del buon costume, concetto per sua natura mutevole in relazione ai cambiamenti, spesso repentini, dell’etica e del costume sociale.
È comunque vietata ogni forma di discriminazione per motivi di credo religioso: ciò spiega la portata dell’art. 8 dello Statuto dei lavoratori (L. 300/70) in base al quale, ai fini dell’assunzione (e durante lo svolgimento del rapporto di lavoro), è vietata al datore ogni indagine sulle opinioni religiose del prestatore.
Un aspetto importante della libertà religiosa su cui porre l’attenzione è il diritto all’obiezione di coscienza, vale a dire il diritto a non compiere attività o a non tenere comportamenti che siano in contrasto con il proprio credo religioso.

Articolo 20

Il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto d'una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività.

 

Attraverso tale disposizione il Costituente rende effettiva la tutela costituzionale del fenomeno religioso. In particolare, viene garantita la facoltà dei singoli e di tutte le confessioni religiose di creare associazioni o istituzioni aventi carattere ecclesiastico o finalità religiosa impedendo che il legislatore (nazionale o regionale) possa prevedere trattamenti sfavorevoli o discriminatori a carico di alcuni enti religiosi rispetto ad altre associazioni, né tantomeno rendere possibile l’uso surrettizio dello strumento fiscale (a livello centrale o locale) per rendere difficoltosi la costituzione e il funzionamento degli enti di culto. Tali garanzie, dunque, vengono assicurate indistintamente a tutti gli enti con finalità religiose, a tutela del principio dell’eguale libertà di fede religiosa.

Articolo 21

Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.
La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.
Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l'indicazione dei responsabili.
In tali casi, quando vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo intervento dell'Autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di polizia giudiziaria, che devono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore, fare denunzia all'Autorità giudiziaria.
Se questa non lo convalida nelle ventiquattro ore successive, il sequestro s'intende revocato e privo di ogni effetto.
La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica.
Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni.

 

La libertà di manifestare il proprio pensiero sancisce l’interesse generale della collettività all’informazione e, come tale, costituisce una pietra angolare di ogni sistema democratico, in quanto garantisce ad ogni essere umano di esprimere le proprie opinioni (o il proprio dissenso) con qualsiasi mezzo e di farne propaganda. Essa rappresenta il presupposto imprescindibile del pluralismo ideologico.Il diritto alla propria opinione è tutelato dall’art. 21 Cost.:
-   nel momento statico: ciascuno può liberamente crearsi un proprio patrimonio di idee e non può essere discriminato in base ad esse;
-   nel momento dinamico: ogni individuo può manifestare liberamente (salvo i limiti di cui si dirà) le proprie idee in qualsiasi luogo, con qualsiasi mezzo (parola, scritto etc.) ed in qualsiasi campo (politico, religioso etc.);
-   nel momento negativo: ogni individuo è libero di tenere segrete le proprie opinioni e non può essere costretto a divulgarle (salvo in casi particolari come per i testimoni nei processi).
Sotto il profilo storico tale libertà fu espressamente sancita dall’art. 11 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 ed ha coinciso con l’instaurazione dello Stato liberale affermandosi sia come libertà individuale che come libertà sociale o collettiva perché consente e stimola il dialogo e il libero confronto dei cittadini per migliorare la vita della comunità.
La libertà di manifestazione del pensiero viene concretamente esercitata attraverso una pluralità di mezzi (stampa, televisione, radio, internet etc.) di cui l’ordinamento deve garantire un ampio e pluralistico regime di pubblicità ed in relazione ai quali viene in rilievo quel particolare aspetto del diritto sancito (anche se non esplicitamente) dall’art. 21 Cost., denominato «libertà d’informazione» che si articola in una pluralità di diritti: di informare, di informarsi e di essere informati. Essa, inoltre, ricomprende anche il diritto al silenzio, cioè a non esprimere il proprio pensiero (libertà negativa).
L’art. 21, redatto ed ideato in un’epoca in cui i mezzi di comunicazione di massa erano limitati, così come è concepito oggi, non fornisce adeguata garanzia al pluralismo dell’informazione.
Anche se il comma 1 dell’articolo 21 fa riferimento alla libertà di manifestazione del pensiero «espressa con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione», l’unico mezzo direttamente disciplinato nei commi successivi è la stampa. Ciò si giustifica in relazione al fatto che la stampa, all’epoca dell’emanazione della Costituzione, costituiva il principale strumento divulgativo. In attesa di una riforma dell'art. 21 alcune riflessioni vanno fatte in riferimento ai nuovi mezzi di comunicazione, in particolare ad Internet ed alle sconfinate possibilità di diffusione del pensiero che tale strumento consente. Si tratta, comunque, di una materia assai delicata, dove si contrappongono due beni costituzionalmente garantiti: la libertà individuale e la tutela di interessi collettivi e individuali.
Anche la facilità di utilizzo di tale mezzo e l'elevata interattività dello stesso comportano rischi di gravi violazioni dei principi e delle norme sulla libertà di pensiero, per cui si impone un'attenta azione di vigilanza dell'autorità garante.

Articolo 22

Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome.
 

Il dettato dell’art. 22 impedisce che nell’ordinamento repubblicano si ripetano le odiose esperienze del regime fascista che, al fine di disfarsi dei suoi oppositori, ne calpestò che i diritti più elementari, fra cui quelli menzionati e tutelati in questo articolo. La legislazione fascista, infatti, privò della cittadinanza gli appartenenti alla comunità ebraica, i fuoriusciti e tutti quelli che praticavano attività anti-fasciste. Essa, inoltre, impose l’italianizzazione dei cognomi originari a chi apparteneva alle minoranze linguistiche.

Articolo 23

Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge.


L’art. 23, riprendendo il noto principio affermato dal reverendo Jonathan Mayhew nel 1750 a Boston, durante la rivoluzione americana, «no taxation without rapresentation», prevede una riserva relativa di legge nell’esercizio della potestà impositiva da parte dello Stato con il preciso scopo di evitare che a carico dei cittadini possa essere arbitrariamente (e senza il presupposto legislativo) imposto dal potere esecutivo alcun onere personale. Dal momento che la libertà personale o il patrimonio dei cittadini possono essere limitati soltanto per superiori esigenze della collettività, spetta unicamente all’organo che rappresenta l’intera nazione (il Parlamento, attraverso lo strumento legislativo), e non ad altri (per esempio il Governo, attraverso il potere regolamentare), il potere di fissare il contenuto minimo di tali sacrifici secondo i principi applicativi che, nel caso dei tributi, vengono determinati dall’art. 53 nel rispetto del principio di eguaglianza dei cittadini.

Articolo 24

Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi.
La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.
Sono assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione.
La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari.

 

Assicurare a tutti i cittadini un giudice imparziale e indipendente rappresenta una delle fondamentali garanzie di ogni sistema democratico. Il diritto alla tutela giurisdizionale costruisce uno dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale italiano, cui è connessa la garanzia che per tutti (cittadini e stranieri) e per dirimere qualsiasi controversia (civile, penale, amministrativa) è previsto sempre un giudice imparziale, nonché l’obbligo dello stesso a decidere senza sottrarsi al giudicato, secondo i principi del giusto processo. Il Costituente ha anche sancito il diritto inviolabile di tutti di difendersi in ogni stato e grado del procedimento. Il diritto di agire in giudizio e il diritto di difesa costituiscono, infatti, il presupposto necessario per la tutela e il ripristino di tutti i diritti e le libertà garantite dalla Costituzione. Proprio in ragione di tale principio, chi non è in grado di affrontare economicamente i costi di un procedimento giudiziario è supportato nel suo agire in giudizio con appositi istituti previsti dalla legge (patrocinio a spese dello Stato). L’art. 24, all’ultimo comma, prevede per l’individuo il diritto a una decisione priva di errori: pertanto, la riparazione degli errori giudiziari è volta a verificare la lesione di una situazione giuridica soggettiva e il conseguente ripristino dell’ordine giuridico violato. Corollari dei principi sanciti in tale articolo sono contenuti nell’art. 25 (giudice naturale e principio di legalità), nell’art. 27 (responsabilità personale e presunzione di innocenza fino alla condanna definitiva) e nell’art. 111 (diritto al contraddittorio e al giusto processo).

Articolo 25

Nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge.
Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso.
Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge.


 

La norma in esame affronta il problema della individuazione del giudice chiamato a giudicare il singolo caso. Vige, al riguardo, il principio per cui la competenza del giudice (naturale) deve essere determinata direttamente dalla legge in base a criteri oggettivi che la affermino preventivamente, cioè prima del suo concreto esercizio. Non è, pertanto, ammissibile che il giudice competente venga stabilito al momento in cui si presenta la necessità di giudicare, perché ciò potrebbe creare potenziali abusi e favoritismi. La competenza deve essere fissata in assoluto e le controversie vanno assegnate ai singoli giudici in base a criteri astratti e predeterminati.
Il principio garantista enunciato nel comma 1 viene ulteriormente sviluppato nei commi 2 e 3 che sanciscono il principio di legalità delle pene e delle misure di sicurezza.
In particolare, per quanto riguarda il primo profilo, la Costituzione ha recepito il principio «nullum crimen sine previa lege» in base al quale la legge penale si applica ai fatti commessi dopo che la legge stessa sia entrata in vigore (principio di irretroattività) al fine di evitare che determinate condotte ritenute lecite dall’individuo siano successivamente considerate illecite e quindi definite come «crimen» o subiscano successivamente un inasprimento sanzionatorio.
La ratio di tale norma poggia sull’esigenza che il singolo sia in grado – prima di commettere un crimine – di valutare le conseguenze giuridico-penali della propria condotta: calcolo che non può essere fatto se – successivamente al reato – venga, ad esempio, inasprita la pena. Tale assunto non può valere in caso di una successiva legge penale più favorevole (cd. retroattività favorevole) in quanto, avendo lo Stato successivamente depenalizzato o ridotto la pena, viene meno la ratio punendi della norma coercitiva in relazione ad un fatto non più considerato reato (o considerato reato meno grave). Per quanto riguarda il secondo profilo, vige il divieto di rinviare alle fonti secondarie (autorità amministrative, penitenziarie ecc.) o all’arbitrio del giudice l’individuazione della misura di sicurezza: è solo la legge, infatti, che deve determinare i presupposti, la tipologia e i contenuti di ogni misura di sicurezza per garantirne una corretta applicazione ed evitare qualsiasi arbitraria applicazione.

Articolo 26

L'estradizione del cittadino può essere consentita soltanto ove sia espressamente prevista dalle convenzioni internazionali.
Non può in alcun caso essere ammessa per reati politici.



Questo articolo riconosce l’estradabilità del cittadino – negata in passato dal codice penale Rocco – che non è consentita soltanto nei casi e nei modi previsti dalla disciplina pattizia internazionale. Tuttavia, anche laddove prevista da accordi internazionali, l’estradizione non è ammessa qualora la stessa possa in qualche modo ledere il nucleo insopprimibile dei diritti fondamentali riconosciuti dal nostro Stato, nell’ambito dei quali è sicuramente rinvenibile il diritto alla vita (es.: pericolo di applicazione della pena di morte) e il diritto ad un equo processo. In tale ultimo senso milita una specifica previsione della L. 22 aprile 2005, n. 69, volta a recepire nel diritto interno il mandato d’arresto europeo, che esclude la consegna dell’imputato o del condannato allo Stato europeo che si sia macchiato di gravi e persistenti violazioni dei diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, in particolare degli articoli 5 (diritto alla libertà e alla sicurezza) e 6 (diritto ad un processo equo). Inoltre l’Italia si impegna a dare esecuzione al mandato d’arresto europeo nel rispetto dei principi e delle regole contenuti nella Costituzione attinenti al giusto processo.

Articolo 27

La responsabilità penale è personale.
L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.
Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.
Non è ammessa la pena di morte.


 

L’articolo sancisce i principi della personalità, della responsabilità penale e della presunzione di non colpevolezza, fino alla condanna definitiva nonché attribuisce alla pena una funzione rieducativa, ripudiando in qualsiasi caso la pena di morte e ogni trattamento contrario al senso d’umanità (principio di umanità della pena a tutela della persona). La nostra Repubblica, con la L. 354/75 (Riforma dell’ordinamento penitenziario), ha introdotto alcuni aspetti di umanizzazione del trattamento penitenziario (permessi, licenze e altre agevolazioni) e con la L. cost. n. 1 del 2007, con cui ha definitivamente abrogato la pena di morte anche nei codici penali militari di guerra, è da considerarsi all’avanguardia rispetto a molti altri paesi civili.

Articolo 28

I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tali casi la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici.


L’art. 28, pur menzionando tutte le forma di responsabilità, sancisce esclusivamente la responsabilità civile diretta dei pubblici dipendenti e dei funzionari dello Stato per i danni cagionati a terzi. Tale articolo (che segue l’articolo che disciplina la responsabilità penale) costituisce la norma che racchiude il catalogo dei diritti inviolabili dell’uomo essendo collocata non nella parte relativa alla Pubblica Amministrazione (artt. 97-98), ma in quella relativa ai diritti e doveri dei cittadini e, precisamente, nel titolo dedicato ai rapporti civili. Nonostante il chiaro dettato costituzionale, la responsabilità della P.A. per i danni a terzi è un principio riconosciuto da non molto in giurisprudenza (cfr. Cass. Civ., S.U. 22-7-1999, n. 500) che lo ha collegato direttamente con il principio della risarcibilità del danno derivante da fatto illecito (art. 2043 c.c.) ciò anche secondo quanto stabilito a livello europeo (art. 340 TFUE: «In materia di responsabilità extracontrattuale, l’Unione deve risarcire, conformemente ai principi generali comuni ai diritti degli Stati membri, i danni cagionati dalle sue istituzioni o dai suoi agenti nell’esercizio delle loro funzioni»). Pertanto, tale responsabilità non si riferisce solo all’amministrazione (in quanto ente nel cui interesse è stata svolta l’attività danneggiante), ma anche al suo dipendente che è tenuto a rispondere in prima persona degli atti che abbiano recato un danno agli utenti nello svolgimento delle sue funzioni pubbliche.