Kant

 

1. VITA E OPERE
Immanuel Kant nacque da famiglia di origine scozzese a Konigsberg, allora capoluogo della Prussia orientale, nel 1724. Fu educato nel Collegium Fridericianum. Uscito dal collegio, Kant studiò filosofia, matematica e teologia all’Università di Konigsbeg. Dopo gli studi universitari fu precettore privato in alcune case patrizie. Nel 1755 ottenne la libera docenza presso l’Università di Konigsberg e per 15 anni svolse presso l’università i suoi corsi liberi su varie discipline. Nel 1770 fu nominato professore ordinario di logica e metafisica in quell’Università. Kant tenne questo posto sino alla morte. L’esistenza di Kant è priva di avvenimenti drammatici e di passioni, con pochi affetti e amicizie, interamente concentrata in uno sforzo continuo di pensiero che si accompagnava ad uno stile di vita basato su rigide abitudini. Kant non fu però estraneo agli avvenimenti politici del suo tempo. Simpatizzò con gli americani nella loro guerra d’indipendenza e con i francesi nella loro rivoluzione che giudicava diretta a realizzare l’ideale di libertà politica. Il suo ideale politico, quale egli lo delineò nello scritto Per la pace perpetua (1795), era una costituzione repubblicana «fondata in primo luogo sul principio di libertà dei membri si una società, come uomini; in secondo luogo sul principio d’indipendenza di tutti, come sudditi; in terzo luogo sulla legge dell’uguaglianza, come cittadini».
Il solo contrasto notevole della sua vita è il contrasto in cui venne a trovarsi col governo prussiano dopo la pubblicazione della seconda edizione della Religione nei limiti della semplice ragione. Negli ultimi anni Kant fu preso da una debolezza senile che lo privò gradualmente di tutte le sue facoltà. Morì nel 1804, mormorando «Es ist gut» (sta bene). Sulla sua tomba furono incise le seguenti parole, tratte dalla Critica della ragion pratica: «Il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me».

Nell’attività letteraria di Kant si possono distinguere tre periodi:
1. nel primo, che va fino al 1760, prevale l’interesse per le scienze naturali; l’opera principale è del 1755. Storia naturale universale e teoria dei cieli;
2. nel secondo periodo, che va fino al 1781, prevale l’interesse filosofico, si determina il distacco dal dogmatismo  l’orientamento verso l’empirismo inglese e il criticismo;
3. il terzo periodo, dal 1781 in poi, è quello della filosofia trascendentale.
Il secondo periodo si conclude con un’opera che anticipa il periodo critico: la dissertazione De mundi sensibilis atque intelligibilis forma et principiis (Forma e principi del mondo sensibile e intelligibile) o semplicemente Dissertazione del 1770. In tale opera Kant stabilisce la distinzione tra conoscenza sensibile e conoscenza intellettuale:
• la conoscenza sensibile è dovuta alla ricettività (o passività) del soggetto che si modifica in presenza dell’oggetto; essa è la conoscenza delle cose uti apparent (= come appaiono), ovvero dei fenomeni;
• la conoscenza intellettuale, che è una facoltà del soggetto, è la conoscenza delle cose uti sunt (=come sono  in sé) ovvero dei noumeni.
Per quanto riguarda la conoscenza intellettuale, bisogna precisare che nel 1770 Kant è ancora legato a una visione tradizionale in quanto è dell’opinione che l’intelletto possa andare oltre l’apparenza per cogliere la vera realtà. Tale visione sarà abbandonata nel terzo periodo.
Concentriamoci quindi sulla conoscenza sensibile. In esso si distingue la materia dalla forma:
• la materia è la sensazione, che è una modificazione del soggetto in presenza dell’oggetto,
• la forma è la legge che ordina la materia sensibile.
La legge è costituita dallo spazio e dal tempo. Questi non sono oggetti d’esperienza, ma sono intuizioni pure, cioè sono conoscenze che il soggetto già possiede dentro si sé e che sono il presupposto di ogni esperienza.

Nei dieci anni che seguirono la pubblicazione della Dissertazione, Kant andò lentamente elaborando la sua filosofia critica. Nel 1781 apparve Critica della ragion pura. In quest’opera Kant ha condotto al termine «il risultato di una meditazione di dodici anni in quattro o cinque mesi circa, quasi di volo, ponendo bensì la massima attenzione al contenuto, ma con poca cura della forma e di quanto occorre per essere facilmente inteso dal lettore». La Critica della ragion pura apre la serie delle grandi opere di Kant. Nel 1783 uscivano i Prolegomeni a ogni metafisica futura che voglia presentarsi come scienza. Seguirono: Fondazione della metafisica dei costumi (1785); Principi metafisici della scienza della natura (1786); Critica della ragion pratica (1788); Critica del Giudizio (1790); La religione nei limiti della semplice ragione (1793); La metafisica dei costumi (1797).
 

2. IL CRITICISMO COME “FILOSOFIA DEL LIMITE”
Il pensiero di Kant è detto “criticismo” perché, contrapponendosi all’atteggiamento mentale del dogmatismo (che consiste nell’accettare opinioni e dottrine senza interrogarsi sulla loro effettiva consistenza), fa della “critica” lo strumento per eccellenza della filosofia. “Criticare”, nel linguaggio tecnico di Kant, significa interrogarsi programmaticamente circa il fondamento di determinate esperienze umane, chiarendone le possibilità (= le condizioni che ne permettono l’esistenza), la validità (= i titoli di legittimità o non-legittimità che le caratterizzano) e i limiti (= i confini della validità). Nell’istanza critica di Kant risulta dunque centrale e qualificante l’aspetto del limite. Pertanto, il criticismo si configura come una filosofia del limite.
Questa filosofia del finito non equivale tuttavia a una forma di scetticismo, poiché tracciare il limite di un’esperienza significa nel contempo garantirne, entro il limite stesso, la validità. Infatti Kant riconosce in Hume il merito di aver rotto il suo «sogno dogmatico», ponendo i limiti della ragione.
 

3. LA CRITICA DELLA RAGION PURA
La Critica della ragion pura è sostanzialmente una critica (= indagine che vuole stabilire i limiti di un’esperienza e riconoscere la validità della stessa) dei fondamenti del sapere. Ai tempi di Kant il sapere si articolava in scienza e metafisica e Kant si interroga sul valore di entrambi i saperi dopo che Hume ne aveva minato il valore negando l’esistenza di un sapere certo. La scienza e la metafisica si presentavano in modo diverso:
sapere scientifico (matematica e fisica): il valore di tale sapere è certo poiché attestato dal fatto che gli scienziati fossero d’accordo sulle scoperte fatte e dai continui progressi;
sapere metafisico: non ha un valore certo poiché non è un sapere in evoluzione e poiché non è un sapere condiviso, essendo che fornisce soluzioni antitetiche ai medesimi problemi.
La ricerca di Kant prende la forma concreta di uno studio teso a stabilire da un lato come siano possibili la matematica e la fisica in quanto scienze, e dall’altro come sia possibile la metafisica in quanto disposizione naturale e in quanto scienza. Tuttavia, osserva il filosofo, mentre nel caso della matematica e della fisica si tratta semplicemente di giustificare una situazione di fatto, chiarendo le condizioni che le rendono possibili, nel caso della metafisica si tratta di scoprire se esistono davvero condizioni tali che possano legittimare le sue pretese di porsi come scienza, oppure se essa sia inevitabilmente condannata alla non-scientificità.
Nella Critica della ragion pura il discorso verte sulla scienza. La scienza è un sapere che, pur partendo dall’esperienza e pur alimentandosi continuamente da essa, si basa su principi assoluti, cioè su verità immutabili, universali e necessarie, che fungono da pilastri del sapere scientifico. Questi principi assoluti sono proposizioni del tipo «Ogni evento ha una causa» oppure «Tutti i fenomeni cadono nel tempo e stanno necessariamente fra di loro in rapporti di tempo». Allora Kant si chiede che tipo di giudizio siano tali proposizioni. Secondo la teoria del giudizio ci sono due tipi di giudizio:
GIUDIZIO ANALITICO A PRIORI: viene enunciato a priori, senza bisogno di ricorrere all’esperienza. Si formula analizzando un concetto, prendendone una caratteristica e predicandolo (es. «i corpi sono estesi»). Si basa quindi sul criterio di non-contraddizione , è necessario e universale, ma non euristico, vale a dire che non amplia le conoscenze;
GIUDIZIO SINTETICO A POSTERIORI: si formula sulla base dell’esperienza, per questo il predicato dice qualcosa di nuovo rispetto al soggetto (es. «i corpi sono pesanti»). Questi giudizi, pur ampliando le conoscenze, sono privi di universalità e necessità perché poggiano esclusivamente sull’esperienza.
I principi assoluti su cui si basa la scienza sono GIUDIZI SINTETICI A PRIORI: giudizi poiché consistono nell’aggiungere un predicato a un soggetto; sintetici perché il predicato dice qualcosa di nuovo e di più rispetto ad esso; a priori perché essendo universali e necessari non possono derivare dall’esperienza. Comunque Kant non dice che la scienza consiste di giudizi sintetici a priori: le leggi scientifiche sono giudizi sintetici a posteriori, ma, come dice Kant, come tali,  queste leggi sono mutevoli ma presuppongono i giudizi sintetici a priori. Infatti in futuro potrà cambiare la causa di un determinato fenomeno ma non cambierà mai il fatto che tale fenomeno avrà una causa; quindi lo schema causa-effetto è immutabile ed è un pilastro della scienza, proprio come lo è il principio secondo il quale tutti i fenomeni si presentano sempre in successione temporale.

3.1. LA “RIVOLUZIONE COPERNICANA”. Dopo aver messo in luce che il sapere poggia su giudizi sintetici a priori, Kant si trova di fronte al complesso problema di spiegare la provenienza di quest’ultimi. Infatti, se non derivano dall’esperienza, da dove deriveranno i giudizi sintetici a priori? Come sono essi possibili?
Per rispondere a tale interrogativo, Kant elabora una nuova teoria della conoscenza introducendo due novità:
1. Rapporto soggetto-oggetto: Kant opera una rivoluzione gnoseologica, paragonabile a quella astronomica di Copernico. Come Copernico, per spiegare i moti celesti, aveva ribaltato i rapporti tra Terra e Sole, così Kant, per spiegare la scienza, ribalta i rapporti tra soggetto e oggetto, affermando che non è il soggetto ad adeguarsi all’oggetto per conoscerlo (come aveva affermato il realismo gnoseologico, secondo cui il soggetto si limita ad osservare i legami presenti nella realtà), bensì è l’oggetto ad adeguarsi alle modalità di conoscenza del soggetto. Tali modalità sono universali e necessarie.
2. Nuova teoria della conoscenza: conoscenza intesa come sintesi di materia e forma. Per materia della conoscenza si intende la molteplicità delle impressioni sensibili che provengono dall’esperienza (elemento empirico o a posteriori). Per forma si intende l’insieme delle modalità fisse attraverso cui la mente ordina tali impressioni (elemento razionale o a priori). Per chiarire la teoria delle forme a priori di Kant gli studiosi sono ricorsi all’esempio, ormai classico, che le paragona a delle lenti colorate attraverso cui guardiamo la realtà. Un altro esempio più “attuale” è quello tratto dall’informatica: la mente kantiana è simile a un computer, che elabora la molteplicità dei dati che le vengono forniti dall’esterno mediante una serie di programmi fissi, che ne rappresentano gli immutabili codici di funzionamento.
La mente formula giudizi sintetici a priori sulla base delle forme a priori della conoscenza che sono, appunto, le modalità di conoscenza. L’esistenza nel soggetto conoscente di forme a priori giustifica la presenza di giudizi sintetici a priori che essendo formulati sulla base di tali forme e non sull’esperienza, non temono di essere smentiti.
Da questa teoria della conoscenza segue una distinzione tra due realtà: il fenomeno e il noumeno. Il fenomeno o realtà fenomenica è la realtà conosciuta dal soggetto conoscente tramite le forme a priori che sono proprie della nostra struttura conoscitiva. Il noumeno o cosa in sé è la realtà considerata indipendente da noi e dalle forme a priori. Come tale, la cosa in sé sarà sempre una «x sconosciuta» poiché i soggetti conoscenti non potranno mai liberarsi dalle forme a priori della conoscenza. Quindi la mente non può andare oltre i fenomeni e l’esistenza di una realtà diversa da quella conosciuta tramite le forme a priori è solo un’ipotesi.

3.2. LE FACOLTÀ DELLA CONOSCENZA E LA PARTIZIONE DELLA CRITICA DELLA RAGION PURA. Kant articola la conoscenza in tre facoltà principali: la sensibilità, l’intelletto e la ragione.
SENSIBILITÀ: è la facoltà con cui gli oggetti ci sono dati intuitivamente attraverso i sensi e tramite le forme a priori di spazio e tempo.
INTELLETTO: è la facoltà con cui pensiamo gli oggetti intuiti dalla sensibilità tramite le 12 categorie o concetti puri.
RAGIONE: è la facoltà attraverso cui, oltrepassando l’esperienza, cerchiamo di spiegare globalmente la realtà mediante le tre idee di anima, mondo e Dio.
Su questa tripartizione della facoltà conoscitiva è basata anche la divisione della Critica della ragion pura. Questa si divide in dottrina degli elementi (che si propone di scoprire, isolandole, le forme a priori) e in dottrina del metodo (che si propone di chiarire l’uso degli elementi, ovvero il metodo della conoscenza).
La dottrina degli elementi a sua volta si divide in:
Estetica trascendentale, che studia la sensibilità e le sue forme a priori (spazio e tempo), mostrando come su di essa si fondi la matematica;
Logica trascendentale, che studia il pensiero discorsivo e si divide in:
- Analitica trascendentale, che studia l’intelletto e le sue forme a priori (12 categorie) mostrando come su di esse si fondi la fisica;
- Dialettica trascendentale, che studia la ragione e le sue idee di anima, mondo e Dio, mostrando come su di esse si fondi la metafisica
Nonostante Kant usi il termine trascendentale in varie accezioni, questa parola viene utilizzata per indicare lo studio delle forme a priori della conoscenza.

3.3. ESTETICA TRASCENDENTALE. Nell’Estetica Kant studia la sensibilità e le sue forme a priori (spazio e tempo). Kant considera la sensibilità recettiva, in quanto essa non genera i propri contenuti a li accoglie per intuizione dall’esperienza esterna o dall’esperienza interna. Tuttavia la sensibilità non è soltanto recettiva ma è anche attiva, perché organizza i dati empirici servendosi delle sue modalità: lo spazio e il tempo.
Lo spazio è la forma del senso esterno, cioè la condizione che ci permette si rappresentare gli oggetti esterni e di disporli «l’uno accanto all’altro».
Il tempo è la forma del senso interno, cioè la condizione grazie alla quale si ha la rappresentazione sensibile degli stati d’animo, che sono disposti uno dopo l’altro, secondo un ordine di successione.
Dopo essere stata rappresentata sensibilmente, la realtà esterna diventa un’esperienza interna ed è data dal senso interno, quindi è organizzata dalla forma del senso interno, il tempo. Per questo il tempo può essere considerato la forma universale dei fenomeni (in quanto tutti i fenomeni cadono nel tempo ma non è detto che cadano anche nello spazio). Kant considera spazio e tempo intuizioni pure (cioè innate, universali e necessari). Per dimostrare l’apriorità dello spazio e del tempo, Kant piuttosto che fornire alla sua tesi valide argomentazioni, preferisce criticare le altre posizioni su spazio e tempo, in particolare critica la visione empiristica, oggettivistica e concettualistica.
Contro la visione empiristica (Locke): secondo la visione empiristica, spazio e tempo sono nozioni tratte dall’esperienza. Kant afferma che non possono essere tratti dall’esperienza essendo che ogni esperienza li presuppone.
Contro la visione oggettivistica (Newton): secondo la visione oggettivistica spazio e tempo sono entità a sé stanti, pensate come recipienti vuoti. Allora Kant afferma che non è possibile rappresentare tali recipienti se vengono svuotati di tutti gli oggetti.
Contro la visione concettualistica (Leibuiz): secondo la visione concettualistica spazio e tempo sono concetti ricavati, attraverso il processo di induzione, da esperienze particolari. Secondo Kant invece quando si fa esperienza particolare di un oggetto, si rappresenta tale oggetto compreso in uno spazio più grande. Quindi l’idea di spazio è già posseduta.
In conclusione spazio e tempo sono quadri mentali a priori entro cui si organizzano i dati empirici. Circa spazio e tempo, Kant parla di realtà empirica e identità trascendentale: spazio e tempo sono reali e oggettivi rispetto alla realtà fenomenica, ma sono ideali o soggettivi rispetto alla realtà in sé.
Nell’Estetica trascendentale Kant dimostra anche che la matematica si basi su spazio e tempo. La geometria e l’aritmetica sono scienze sintetiche a priori: sintetiche in quanto ampliano le nostre conoscenze e a priori in quanto valgono indipendentemente dall’esperienza. I teoremi infatti non sono conseguiti sulla base dell’esperienza ma sulla base delle forme a priori della sensibilità: in particolare l’aritmetica si basa sul tempo e la geometria sullo spazio. In questo modo Kant dimostra la scientificità della matematica, in quanto essa è basata sulle forme a priori  di spazio e tempo.

3.4. ANALITICA TRASCENDENTALE. La seconda parte della dottrina degli elementi è la Logica trascendentale, un tipo di logica che si distingue da quella formale in quanto non si limita a studiare i meccanismi formali del pensiero, ma indaga circa l’origine, l’estensione e la validità oggettiva delle conoscenze a priori che sono proprie dell’intelletto (studiato dall’Analitica trascendentale) e della ragione (studiata dalla Dialettica trascendentale).
In un famoso passo Kant precisa che sensibilità e intelletto sono entrambi indispensabili alla conoscenza perché «senza sensibilità nessun oggetto ci verrebbe dato e senza intelletto nessun oggetto verrebbe pensato, i pensieri senza contenuto [senza intuizioni] sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche» (Critica della ragion pura, B 75). Mentre le intuizioni sono affezioni, i concetti sono funzioni, ovvero sono attività di sintesi. I concetti possono essere:
empirici, cioè costituiti dai materiali ricavati dall’esperienza;
puri, contenuti a priori nell’intelletto.
I concetti puri, o categorie, rappresentano le supreme funzioni unificatrici dell’intelletto che sono in altre parole le modalità innate che permettono di collegare nel giudizio un predicato ad un soggetto. Le categorie coincidono con i predicati primi, cioè con quelle grandi caselle entro cui rientrano tutti i predicati possibili (come aveva detto Aristotele). Tuttavia c’è una differenza tra le categorie aristoteliche e quelle kantiane:
• per Aristotele le categorie hanno un valore ontologico (in quanto sono i caratteri fondamentali e comuni a ogni ente) e gnoseologico (in quanto predicati primi, cioè i predicati che si possono predicare per tutti gli esseri)
• per Kant le categorie non hanno alcun valore ontologico, ma solo gnoseologico-trascendentale, in quanto rappresentano i modi di funzionamento dell’intelletto che non valgono per la cosa in sé, ma solo per il fenomeno.

Dopo aver stabilito la nozione di “categorie”, Kant formula il suo inventario sulla base di un “filo conduttore”: poiché pensare è giudicare, e giudicare significa attribuire un predicato a un soggetto, ci saranno tante categorie quante sono le modalità di giudizio (ovvero quante sono le maniere fondamentali tramite cui si attribuisce un predicato a un soggetto).
Kant si trova poi di fronte al problema della giustificazione della validità delle categorie e denomina tale problema «deduzione trascendentale». Kant usa il termine “deduzione” non in senso logico-matematico, bensì in quello giuridico-forense, col quale allude alla dimostrazione della legittimità di un diritto di una pretesa di fatto. Quindi la domanda che si pone Kant è se la pretesa della categorie di essere i validi modi di conoscere gli oggetti è legittima. Detto altrimenti, che cosa ci garantisce di diritto che la natura obbedirà alle categorie, manifestandosi, nell’esperienza, secondo le nostre maniere di pensarla? Kant risponde affermando che come le cose per essere conosciute sensibilmente devono sottostare alle forme della sensibilità (spazio e tempo), così per essere pensate devono sottostare alle forme dell’intelletto (le dodici categorie). La soluzione kantiana consiste quindi nel mostrare come gli oggetti d’esperienza (intuiti sensibilmente) non sarebbero tali se non fossero pensati dall’io penso. In altre parole, senza categorie non esiste l’attività unificatrice dell’io penso e quindi non esistono gli oggetti d’esperienza. Ciò che ci garantisce che la natura obbedirà alle categorie è proprio il fatto che la natura viene costituita dalle categorie. Nella teoria della conoscenza di Kant l’io penso si configura come «il principio supremo della conoscenza umana». Kant conclude l’Analitica elencando i principi dell’intelletto puro, che sono le conoscenze a priori dell’intelletto circa la realtà fenomenica e che corrispondono alle leggi generali della natura e alle tesi fondamentali della fisica. Da qui possiamo affermare che l’io penso risulta essere il vero legislatore della natura, in quanto, con le categorie e i principi dell’intelletto puro, è l’ordinatore della natura.

3.5. DIALETTICA TRASCENDENTALE. Nella Dialettica Kant affronta il problema circa la scientificità della metafisica, cioè se la metafisica può considerarsi una scienza o se è destinata alla non-scientificità. Già a partire dalla definizione che Kant da della «dialettica trascendentale» si intuisce una sua risposta negativa alla questione. Infatti Kant definisce la «dialettica trascendentale» come l’analisi e lo smascheramento dei ragionamenti fallaci della metafisica. Tali ragionamenti fallaci sono dovuti alla struttura della mente umana: l’intelletto, ovvero la facoltà logica che unifica i dati sensibili tramite le categorie, è portato ad andare oltre i dati dell’esperienza e ad unificare anche in assenza di dati. Ciò deriva dalla nostra innata tendenza all’incondizionato e all’assoluto. In altre parole, la ragione non si appaga del mondo fenomenico, che è il mondo del condizionato e del relativo, e trasforma la molteplicità ordinata ma infinita di fenomeni in una totalità conclusa e perfetta chiamata anima, mondo e Dio. Queste sono le tre idee trascendentali che sono proprie della ragione. Quest’ultima è portata a unificare i dati del senso interno mediante l’idea di anima, che è l’idea della totalità assoluta dei fenomeni interni; a unificare i dati del senso esterno mediante l’idea di mondo, che è l’idea della totalità assoluta dei fenomeni esterni; infine tende ad unificare i dati interni ed esterni mediante l’idea di Dio, inteso  come totalità di tutte le totalità e fondamento di tutto ciò che esiste.
I concetti puri della ragione sono chiamati idee in senso platonico: essi sono tre ideali della mente a cui non corrisponde alcun oggetto d’esperienza. L’errore della metafisica consiste proprio nel trasformare tali ideali in realtà, dimenticando che noi non abbiamo mai a che fare con la cosa in sé, ma solo con la realtà fenomenica. 

Per dimostrare l’infondatezza della metafisica, Kant studia le tre scienze metafisiche: la psicologia razionale (che studia l’anima), la cosmologia razionale (che studia il mondo) e la teologia razionale (che studia Dio).
Psicologia razionale. Si fonda su un paralogisma, ovvero su un ragionamento errato, che consiste nell’applicare la categoria di sostanza all’io penso, trasformandolo da attività unificatrice a sostrato ontologico chiamato «anima». Secondo Kant invece l’io penso è soggetto di categorie, in quanto le applica, e non oggetto.
Cosmologia razionale. Pretende di poter discutere intorno al mondo, inteso come totalità dei fenomeni. Ma non si può parlare di un qualcosa di cui on si ha esperienza, infatti noi possiamo sperimentare questo o quel fenomeno, non la serie completa di fenomeni. Quando i metafisici pretendono di fare un discorso intorno al mondo, cadono nelle “antinomie”, ossia “contraddizioni della ragione con se stessa”. Esse si concretizzano in coppie di affermazioni opposte, dove l’una (la tesi) afferma e l’altra (l’antitesi) nega, ma tra le quali non è possibile decidere. Questo perché sia tesi che antitesi sono razionalmente dimostrate, ma sono prive d’esperienza.
Teologia razionale. Ha per oggetto Dio, il modello supremo di tutte le cose da cui tutte le cose derivano. La tradizione ha elaborato una serie di prove dell’esistenza di Dio, che Kant raggruppa in tre classi:
• Prova ontologica
• Prova cosmologica
• prova fisico-teologica
La prova ontologica, che risale a Sant’Anselmo, pretende di ricavare l’esistenza di Dio dal semplice concetto di Dio come essere perfettissimo, affermando che, in quanto tale, Egli non può mancare dell’attributo dell’esistenza. Distinguendo tra piano mentale e piano reale, Kant obietta che non è possibile saltare dal piano della possibilità logica a quello della realtà ontologica, in quanto l’esistenza di Dio si può affermare solo sulla base dell’esperienza e non si può ricavare dall’analisi di un concetto.
Le idee della ragion pura non ci fanno conoscere alcun oggetto, quindi non hanno un uso costruttivo (come le categorie, che vanno a costituire la natura fenomenica nel suo ordine). Esse hanno un uso regolativo, cioè esse devono essere usate come regole che spingono la mente a una conoscenza il più estesa e conclusa possibile.
In conclusione della Dialettica, Kant afferma che la metafisica tradizionale (che pretende di trasformare le idee in realtà) non può essere considerata una scienza. L’unica metafisica possibile è quella «critica», volta a conoscere i principi puri della natura (metafisica della natura) e dell’agire (metafisica dei costumi).
 

6. CRITICA DELLA RAGION PRATICA
Nella Critica della ragion pratica Kant ricerca le condizioni a priori che giustifichino un agire universalmente valido. La ragione pratica si distingue da quella pura (o teoretica) perché essa non conosce, ma determina la volontà e guida l’agire. Kant distingue tra:
• una ragione pura pratica, che opera indipendentemente dall’esperienza e dalla sensibilità,
• una ragione empirica pratica, che opera sulla base dell’esperienza e della sensibilità.
Kant parte dalla convinzione che esista nell’uomo una legge morale a priori, legge che il filosofo non ha il compito di “dedurre” o “inventare”, ma unicamente di “constatare”. Il carattere fondamentale di tale legge è l’assolutezza o incondizionatezza. L’incondizionatezza implica:
la validità universale e necessaria della legge
la libertà dell’agire
I caratteri concreti con cui si presenta il comando morale sono: categoricità, formalità, libertà e autonomia.

6.1. CATEGORICITÀ. Kant ricava questo carattere tramite un ragionamento: egli distingue i «principi pratici» che regolano la nostra volontà in «massime» e «imperativi»:
• la massima è una prescrizione di valore puramente soggettivo, cioè valida esclusivamente per l’individuo che lo fa propria;
• l’imperativo è una prescrizione di valore oggettivo, che vale per chiunque. Gli imperativi si dividono a loro volta in imperativi ipotetici ed imperativi categorici:
- gli imperativi ipotetici prescrivono dei mezzi in vista di determinati fini e hanno la forma del “se… devi”
- gli imperativi categorici ordina il dovere in modo incondizionato e hanno la forma del “devi” puro e semplice.
Essendo la morale incondizionata, cioè indipendente dagli impulsi sensibili e dalle mutevoli circostanze, risulta evidente che essa non potrà risiedere negli imperativi ipotetici, che sono condizionati e variabili, ma negli imperativi categorici.

6.2. FORMALITÀ. Un’altra caratteristica dell’etica kantiana è la formalità, in quanto la legge non ci dice che cosa dobbiamo fare, ma come dobbiamo agire: bisogna agire secondo una massima che valga come principio di legislazione universale. Nell’opera Metafisica del costume, Kant ci fornisce altre due formule che dicono come agire:
rispetta la dignità umana che è in te e negli altri
agisci in modo che la volontà possa considerare se stessa come universalmente legislatrice.
Quest’ultima formula sottolinea l’autonomia della volontà, chiarendo come il comando morale non sia un imperativo esterno, ma il frutto spontaneo della volontà che si auto-determina. Categoricità e formalismo garantiscono l’incondizionatezza del comando morale e quindi il suo valore universale e necessario. Mentre la necessità della legge naturale consiste nel fatto che essa non può non verificarsi, la necessità della legge morale consiste nel fatto che essa è valida per sempre e per tutti, ma può non realizzarsi in quanto la volontà è soggetta sia alla ragione sia agli istinti: la volontà è libera di scegliere tra ragione e istinto, ma per comportarsi moralmente bisogna vincere l’istinto.

6.3. LIBERTÀ. La libertà, di cui abbiamo precedentemente parlato, è la terza caratteristica dell’etica di Kant. Si è liberi in due sensi:
senso negativo: consiste nel sottrarsi alla legge naturale
senso positivo: si identifica con la capacità della volontà di autodeterminarsi (= libera è la volontà che si dà da sé la legge da seguire). In tale senso la volontà è autonoma.

6.4. AUTONOMIA. La moralità presuppone una volontà autonoma, per questo Kant critica le morali eteronome, cioè quelle morali che fanno dipendere la volontà da una legge che proviene dall’esterno. In particolare sono eteronome le morali che si fondano sulla ricerca della felicità. Kant critica questo tipo di morale perché la ricerca della felicità inquina la purezza dell’agire e lo condiziona (in quanto pone delle condizioni per raggiungere uno scopo, la felicità). Questa morale da luogo quindi a imperativi ipotetici e vengono così meno l’incondizionatezza e la categoricità, caratteri fondamentali della legge morale.
Secondo Kant bisogna agire per il dovere, non per la felicità; ma chi compie il dovere è meritevole di felicità. L’addizione di virtù e felicità costituisce il SOMMO BENE. Ma in questo mondo virtù e felicità non sono mai congiunte, in quanto chi è virtuoso non è felice e chi è felice non è virtuoso. Virtù e felicità costituiscono l’antinomia etica per eccellenza, finché dura tale antinomia il sommo bene è impossibile e la vita morale è un’impresa senza senso. L’unico modo per uscire dall’antinomia è postulare l’esistenza di un mondo dell’aldilà dove poter realizzare il sommo bene. Kant trae in termine “postulato” dal linguaggio della matematica classica, dove si chiamano “postulati” quei principi che, pur essendo indimostrabili, vengono accolti per rendere possibili determinate entità.
I postulati tipici di Kant sono l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio. Per quanto riguarda il primo postulato, Kant afferma che poiché solo la santità, ovvero l’adesione perfetta alla legge morale, rende degni del sommo bene e poiché la santità non è mai realizzabile nel nostro mondo, si deve per forza ammettere che l’uomo, oltre il tempo finito dell’esistenza, possa disporre di un tempo infinito grazie a cui progredire verso la santità.
Se la realizzazione della santità implica l’immortalità dell’anima, la realizzazione della felicità comporta il postulato dell’esistenza di Dio, ossia la credenza in una «volontà santa ed onnipotente», che faccia corrispondere la felicità al merito.

Kant conclude la Critica della ragion pratica affermando il primato della ragion pratica, ovvero la superiorità della ragion pratica sulla ragione teoretica, in quanto la ragione pratica può affermare proposizioni che la ragione teoretica non può affermare, come l’immortalità dell’anima e l’esistenza di Dio. Pur aprendo uno squarcio sul trans fenomenico e sul metafisico, i postulati non sono certezze conoscitive, ma sono “ragionevoli speranze” sulle quali è fondata la possibilità dell’agire morale. Se fossero certezze razionali, la moralità sarebbe distrutta poiché, di fronte a certezze quali l’esistenza di Dio, non c’è più la libertà di scegliere.
L’uomo di Kant è colui che compie il dovere per il dovere con, in più, la “ragionevole speranza” nell’immortalità dell’anima e nell’esistenza di Dio.

 

Scarica questi appunti in pdf: